Corriere della Sera - La Lettura
Janeczek: l’autofiction offre un io diverso; Covacich: la scrittura mente; Tuena: l’io riempie i miei libri; Nettel: in letteratura che l’io sia fittizio o autobiografico non cambia; Parrella: l’io narrante è una finzione; Aramburu: ma la finzione aiuta
conto di sé è imperante. Come motiva la sua scelta?
MAURO COVACICH — La mia lontananza dai social non dev’essere scambiata per un giudizio, io non ho nulla contro i social anche perché hanno salvato mia madre dall’isolamento e dalla depressione. Il fatto è che, a differenza sua, io non mi sono evoluto e sono di fatto un residuo novecentesco.
La mia socialità ha ancora bisogno del corpo, delle vecchie relazioni de visu, dove sei costretto a esporti e, se va male, puoi anche giocarti la faccia. Per me ogni rapporto umano comporta una responsabilità, a maggior ragione quelli con gli amici. Non saprei chiedere l’amicizia, né saprei toglierla con un clic. Io ho bisogno del rischio nell’incontro con l’altro, si tratti di una relazione professionale, amorosa o amicale. Credo ancora negli aperitivi, nelle brutte figure, nelle strette di mano, nei ceffoni.
Ovviamente questa mia arcaicità ha una ricaduta diretta anche sulla concezione del mio lavoro, dove l’autobiografismo non è mai finzionale o fittivo che dir si voglia, ma nasce dalla volontà di rendere performativa (e non rappresentativa) la scrittura. La scrittura come arrischiamento del sé, come radicale messa in gioco del soggetto, non per inventare un avatar, bensì per fare della propria vita un testo. Da questo punto di vista, sono stato ispirato più da modelli artistici che letterari, penso a Marina Abramovic, Sophie Calle, Gina Pane, Cindy Sherman, Regina José Galindo... non si tratta di fare un’opera ispirata alla vita, ma di offrire al pubblico la vita come opera.
Questo tipo di lavoro comporta l’assenza di infingimenti, la vocazione allo smascheramento: una vocazione del cui fallimento gli artisti, e io stesso, siamo consasenza che questo ci esima dal continuare a tentare. La scrittura mente, mente sempre, ti costringe a un inevitabile slittamento rispetto al reale. Ma si può essere sinceri anche mentendo. La scrittura come performance invoca il corpo, e quindi la presenza dell’autore, il quale deve rispondere di quello che dice, di quello che fa, secondo l’antico canone della parresia greca, il dovere di dire la verità. Il che non ha nulla a che vedere con i post autobiografici su Facebook o Instagram, i quali anche nei casi più brillanti rispondono a un’esigenza psicologica, non estetica, di solito espressa in un’esternazione o in un’esibizione. Io ho sempre scritto della mia vita privata, ma non ho mai installato una webcam nella doccia di casa. Al contrario, costringo la mia vita nella forma di un romanzo. È più o meno la differenza che c’è tra una caduta e un tuffo: una volta staccati i piedi dal trampolino è inevitabile precipitare, ma grazie all’inventiva e alla tecnica si può formalizzare il gesto, eseguirlo nel proprio stile. Solo dove c’è forma c’è letteratura.
Di Guadalupe Nettel recentemente è stato ripubblicato in Italia il memoir «Il corpo in cui sono nata». E poiché viviamo in un’epoca in cui si pone moltissima enfasi sull’espressività dell’io, specie nei social media, le chiedo se crede che questo abbia influenzato gli scrittori e come ritiene si debba costruire un’io letterario. GUADALUPE NETTEL — Gli scrittori hanno sempre trasformato le loro vite ed esperienze in materiale letterario. Tutti i personaggi si nutrono, anche se poco, della vita di chi li ha creati. Lo diceva già Flaubert: «Madame Bovary c’est moi».
La letteratura è sempre stata specchio della realtà, e l’epoca in cui viviamo è un’epoca egocentrica e narcisista. I social sono il mezzo privilegiato per l’espressione di questa vanità sfrenata. Proprio come avviene con Google dove «il prodotto sei tu», i social network hanno trasformato ognuno di noi in uno spettacolo permanente. Quello sullo schermo del cellulare è uno show effimero con un budget molto basso che ricorre ad attori non professionisti pronti a un’esposizione costante — a volte totale — per la quale non fanno pagare niente, se non qualche like, e il cui pubblico sono loro stessi. Quello che invece c’è eccome, è un sacco di inserzionisti. È come se affiggessero la pubblicità sullo specchio di casa!
Per me, un «io letterario» è un narratore (o una voce poetica) costruito con parole, immagini, e fa parte di una storia o di una poesia; ovvero, l’«io letterario» ha uno scopo letterario. In una logica strettamente letteraria, che questo «io» sia fittizio o autobiografico non fa alcuna differenza. Ciò che conta è come si relaziona con gli altri elementi della narrazione. In letteratura non dovrebbe avere importanza chi è lo scrittore. Ma oggigiorno i lettori pretendono di conoscere i dettagli della sua vita e credono di avere questo diritto. Sta allo scrittore decidere quanto partecipare a questo spettacolo di autocompiacimento. La verità? Io apprezzo e rispetto chi ha deciso di evitare questo tipo di pratica.
Filippo Tuena ha praticato forme romanzesche ibride in cui al racconto storico ha mescolato la presenza dell’autore nella narrazione. Gli ho domandato se ritenga che sia una formula ancora praticabile ed efficace o che questa modalità sia stata corrosa dallo storytelling e dal digital storytelling.
FILIPPO TUENA — Frequento abbastanza assiduamente Facebook che ultimamente sembra destinato a svaporarsi, così poco bazzicato dai millennial e circoscritto ad anziani come me di varie origini e classi e che credono ancora, scrivendo lì, d’essere à la page. Sulla mia bacheca posto essenzialmente libri che m’interessano (miei e di altri); niente di privato, al massimo qualche istantanea del mio cane. Segnalo anniversari di artisti e scrittori a cui sono in qualche modo legato, ma tutto in maniera molto sintetica perché non reggo sul computer una lettura che superi i due o tre minuti. Dunque mi perdo gran parte di quel che accade sui social e sulle riviste online, spazi liberi dall’assillo della misura (che spesso, al contrario, diventa un rigore necessario). Così non so nulla o quasi di digital
storytelling perché continuo, al contrario, a frequentare assiduamente la pubblicazione cartacea. Forse sarà una questione di attenzione tattile, ma quel che leggo su carta rimane nella memoria e quel che scorro sullo schermo del computer svanisce molto rapidamente. Dunque il cosidetto digital storytelling nel suo complesso mi è estraneo così come percepisco in maniera imperfetta l’ipertrofia dell’io in internet.
L’io, al contrario, è sempre stato parte attiva dei miei libri sin dagli inizi alla mia scrittura. Il primo romanzo, del 1991, aveva per protagonista un ignoto antiquario che verso la fine si scopre avere il mio nome e cognome. Così nel secondo e nel terzo. Forse era un vezzo alla Hitchcock o forse quelle apparizioni manifestavano un’esigenza più profonda. Non ho più inserito nella narrazione personaggi che si chiamassero come me ma ho continuato a fare di un anonimo me stesso uno dei protagonisti dei miei libri.
In realtà c’è un motivo per cui, appena posso, nei miei scritti inserisco una figupevoli,