Corriere della Sera - La Lettura
Una purificazione festosa dopo l’orrore del Vietnam
Parla Thomas Mallon, che ha dedicato un romanzo agli eventi che portarono alla caduta di Nixon. «L’America si divertì a seguire gli sviluppi del caso, il mistero delle registrazioni, la richiesta di impeachment al Congresso»
La carriera di Thomas Mallon è cominciata quando il maestro John Updike gli spalancò le porte dell’élite letteraria sul «New Yorker», chiamandolo «uno dei migliori romanzieri in circolazione». Era il 1994. Mallon, scrittore con la passione per la storia, critico e saggista nato nello Stato di New York nel 1951, aveva appena pubblicato Henry and Clara, i cui protagonisti sono l’ufficiale dell’esercito americano Henry Rathbone e la futura moglie Clara Harris, la coppia che si trovava con il presidente Lincoln quando venne assassinato al Ford’s Theatre di Washington, il 14 aprile 1865.
Thomas Mallon è erede di una tradizione intellettuale che ha fatto dell’America il romanzo più avvincente: Capote prese un caso di cronaca nera del remoto Kansas e lo trasformò nel capolavoro A sangue freddo (1966), mentre Mailer, altro gigante di quell’epoca d’oro, con Le armate della notte (1968; sottotitolo: La storia come un romanzo, il romanzo come storia) riscrisse l’imponente marcia pacifista su Washington dell’ottobre 1967 contro l’intervento in Vietnam.
Nella lista di Mallon — raggiunto al telefono da «la Lettura» — non poteva mancare il Watergate, di cui quest’anno ricorrono i 50 anni. Nel 2012 gli ha dedicato un romanzo, finalista al prestigioso Pen/Faulkner Award. Watergate di Mallon è raccontato attraverso la prospettiva di sette personaggi coinvolti nello scandalo che portò alle dimissioni di Richard Nixon nel 1974. Tra questi, la devota segretaria del presidente, Rose Mary Woods, e Fred LaRue, uno degli assistenti della Casa Bianca, finito in prigione per il suo ruolo nel sabotaggio del Comitato nazionale democratico.
C’è un’America prima e dopo il Watergate?
«Non sono così sicuro. È un’esagerazione della stampa e dei politologi. L’idea che l’irruzione al Watergate abbia trasformato gli americani in un popolo cinico, che abbia distrutto il sistema politico, è azzardata. Gli americani hanno sempre guardato alla politica con sospetto, l’hanno sempre considerata un affare sporco, anche prima del Watergate».
Eppure è un evento impresso nella memoria di tutti, non solo negli Stati Uniti. Cinquant’anni dopo indaghiamo e ci interroghiamo ancora.
«Il Watergate ha portato a galla elementi scioccanti, come le telefonate registrate di Nixon: il linguaggio usato dal presidente, impresso su quei famosi nastri, colpì la popolazione, che aveva sempre pensato a Nixon come a un uomo rigido, abbottonato, incapace di lasciarsi andare».
Gli americani erano preparati ad affrontare la corruzione dentro la Casa Bianca?
«Non credo fossero stupiti. Nixon, per difendersi, diceva: guardate che cosa ha fatto Lyndon Johnson prima di me, guardate che cosa ha fatto Franklin Delano Roosevelt prima di me, non sono il primo e non sarò l’ultimo presidente a sporcarsi le mani».
Quale sentimento prevaleva in America durante gli anni del Watergate?
«L’America si è divertita a seguire gli sviluppi del caso, il mistero delle registrazioni, la richiesta di impeachment. È stata una spy story avvincente, si potevano seguire le audizioni in televisione. Non è stato un evento cruento, con morti. C’era un’atmosfera da festival, da commedia. Non bisogna dimenticare che il Watergate è scoppiato dopo gli anni tragici del Vietnam, un calvario di bugie e sangue. La mia mentore, la grande Mary McCarthy, scrisse che il Watergate aveva avuto l’effetto di una purificazione per il Paese dopo il Vietnam. È come se l’America avesse cominciato a respirare di nuovo».
Il giornalismo, la letteratura, sono cambiati dopo il Watergate?
«Il giornalismo di oggi è profondamente diverso rispetto agli anni del Watergate. Vivo nella città dove ha sede il “Washington Post”, che ha avuto i suoi anni di gloria proprio durante quello scandalo, quando l’influenza della stampa sui cittadini raggiunse il momento più alto. Dopo il Watergate c’è stata un’ondata di richieste di assunzioni nei giornali da parte di giovani reporter che seguivano le orme di Bob Woodward e Carl Bernstein. Ciò che ha veramente cambiato e rivoluzionato il giornalismo è la tecnologia. Oggi la stampa è molto meno potente di un tempo. Ci sono giorni in cui penso, leggendo il “New York Times”, che la metà degli articoli siano commenti su ciò che la gente scrive su Twitter. Al tempo del Watergate, la pratica giornalistica era più seria, basata su approfondimenti, i reporter scavavano nei fatti per trovare la notizia. C’erano meno voci all’epoca, ma più affidabili. Oggi ci sono centinaia di firme, di blogger, più che sui fatti ci si interroga sulle opinioni».
Qual è stato il cambiamento più duraturo a livello politico imposto dal Watergate?
«Quando ero un ragazzino, negli anni Sessanta, i partiti erano divisi in fazioni. C’era una larga fazione repubblicana liberale, sensibile al tema dei diritti civili, molto più dei democratici che sedevano nel Congresso. Poi c’erano una sorta di terra di mezzo e l’ala più conservatrice, quella di Barry Goldwater. La stessa cosa per i democratici: il partito si divideva in fazioni radicali, socialisti, anticomunisti, c’erano stati i segregazionisti del Sud, i cosiddetti democratici di destra. Queste fazioni cooperavano all’interno del Congresso per approvare leggi cruciali per il Paese. Adesso assistiamo alla rovina del Partito Repubblicano, il partito di Trump, diventato di estrema destra, mentre i democratici si sono riversati all’estremo opposto. L’acuirsi delle contrapposizioni è una delle conseguenze del Watergate».
Nel romanzo ha narrato personaggi che non sono stati centrali negli eventi del Watergate.
«Mi hanno sempre affascinato i personaggi minori, intrappolati nelle maglie della storia. Per esempio la segretaria di Nixon, Rose Mary Woods, per tutta la vita devota al presidente e molto amica della first lady, Pat Nixon».
Qual è il suo giudizio su Nixon?
«In parte è stato un incompreso. Era un uomo complicato, timido, nascondeva un lato oscuro, come Lyndon Johnson. Erano uomini nevrotici ma politicamente dotati, con un talento fuori dall’ordinario. Erano persone serie con una agenda politica seria. Una volta Nixon disse: sono un introverso che svolge una professione per estroversi. Provo orrore pensando che il suo partito è nelle mani di una nullità come Trump. Gli Stati Uniti di oggi sono molto più in pericolo rispetto al tempo di Nixon e del Watergate».
Chi è l’erede di Nixon?
«Forse è stato John McCain, per la sua visione politica internazionale e per l’inclinazione liberale».
La lezione del Watergate mezzo secolo dopo?
«Senza il controllo del Congresso sull’operato del presidente, senza un bilanciamento dei poteri, il sistema fallisce».