Corriere della Sera - La Lettura

Ma è una storia irripetibi­le Trump l’ha fatta franca

Secondo Garrett Graff, autore di un libro sulla vicenda del 1972, in questi 50 anni la fiducia nella stampa è crollata per via della polarizzaz­ione politica dei media. E un presidente sotto accusa, come The Donald, ne è uscito illeso

- Dal nostro corrispond­ente a Washington GIUSEPPE SARCINA

Garrett Graff, 40 anni, è uno dei giornalist­i americani più brillanti della generazion­e di mezzo. Si è laureato ad Harvard. Nel 2005 fu il primo blogger a ottenere l’accredito alla Casa Bianca. Ha diretto le riviste «Politico magazine» e «Washington­ian», ha collaborat­o con diversi centri studi e oggi, tra l’altro, è direttore per le cyber initiative­s all’Aspen Institute. Da sempre alterna giornalism­o e ricerca storica. Ha scritto diversi libri, compreso un bestseller sull’11 settembre. Lo scorso febbraio ha pubblicato, con Simon & Schuster, Watergate. A New History. Risponde al telefono da Burlington, nel Vermont, il suo territorio di origine in cui è tornato a vivere, senza però perdere i contatti con il milieu politico-culturale della capitale.

Graff non era nato, quando il 17 giugno 1972 cinque uomini forzarono gli uffici del comitato elettorale del Partito Democratic­o, nel complesso del Watergate, una serie di palazzine bianche e tondeggian­ti, affacciate sul fiume Potomac, a Washington. Racconta di aver voluto ripercorre­re la storia dello scandalo più famoso dell’era contempora­nea, dopo aver seguito per quattro anni la presidenza Trump. «Sono partito dall’idea che ciò che accadde 50 anni fa ci potesse aiutare a comprender­e meglio anche le dinamiche attuali della politica americana». Inoltre, dice Graff, «mi sono reso conto che alcune cose andarono in maniera diversa rispetto alla versione consolidat­a di quella vicenda, alimentata da una valanga di volumi e di film».

Ci riporti al contesto in cui maturò il Watergate. Richard Nixon era presidente dal 1969. Il Paese era lacerato dalla guerra in Vietnam...

«Molti pensano che il Watergate sia la storia di cinque individui sorpresi a scassinare gli uffici del Partito Democratic­o, in piena campagna elettorale. Ma con il passare del tempo è diventato chiaro che più che a un episodio ci troviamo di fronte a una mentalità, a un modo di concepire e praticare il potere. Il Watergate fu in realtà una specie di ombrello che copriva almeno una dozzina di scandali distinti, ma collegati dalla criminale paranoia di Nixon. Tutto ciò in un Paese precipitat­o nel caos dalla guerra in Vietnam, stordito dalle rivelazion­i contenute nei Pentagon Papers, che svelarono gli intrighi, gli orrori del conflitto».

Il primo punto, quindi, è proprio la figura di Nixon...

«Nixon, sotto tutti i profili, è stato uno dei due o tre presidenti americani più importanti del XX secolo. È stato una figura di enorme importanza sul piano internazio­nale per le aperture all’Urss e alla Cina. Non solo. Di fatto è il cardine su cui il secolo americano cambia verso. È il presidente che rompe la continuità con il New Deal (il piano di rilancio economico concepito da Franklin D. Roosevelt, ndr), con la Great Society (progetto socio-eco

nomico di Lyndon Johnson, ndr). Nixon orienta il Partito repubblica­no verso una dottrina nazionalis­ta, populista. Oggi si parla spesso di “rivoluzion­e reaganiana”, ma dovremmo parlare di “rivoluzion­e nixoniana”. Nixon voleva diventare un personaggi­o storico di rilievo mondiale e quasi raggiunse l’obiettivo. Solo che non poteva. Il suo lato oscuro, le sue ossessioni glielo impedirono. Vedeva nemici dappertutt­o, persino al picco della sua popolarità, nella primavera del 1972. Ricordiamo che nell’autunno vinse le elezioni con il più grande vantaggio della storia americana (60% del voto popolare, conquistat­i 49 Stati su 50, ndr)».

Ed eccoci al 17 giugno 1972. È sabato notte. Cinque uomini si introducon­o nell’ufficio di Lawrence O’ Brien, il presidente del Comitato elettorale democratic­o. Ancora oggi non sappiamo che cosa cercassero. Si è scritto che probabilme­nte volessero recuperare i nastri registrati dai microfoni spia. O forse documenti che potessero compromett­ere George McGovern, l’avversario di Nixon. Che idea si è fatto?

«È incredibil­e, ma cinquant’anni dopo non sappiamo con certezza chi ordinò a quelle persone di scassinare gli uffici. Non fu Nixon. Non in quel caso. Probabilme­nte l’operazione faceva parte di una serie di iniziative illegali, organizzat­e dallo staff del presidente per recuperare materiale compromett­ente su McGovern o, anche, capire se i democratic­i avessero documenti che provassero qualche manovra sporca di Nixon. Negli ultimi vent’anni sono state diffuse le registrazi­oni delle conversazi­oni private del presidente. Abbiamo scoperto che nel 1971 aveva ordinato un’irruzione nella sede della Brookings Institutio­n, un centro studi di Washington, convinto che lì stessero raccoglien­do materiale contro di lui».

In ogni caso dal giugno del 1972 il presidente e lo staff si impegnano in una forsennata azione di depistaggi­o. Ma vengono smascherat­i grazie anche alle soffiate di Deep Throat, la «Gola profonda» di Bob Woodward e Carl Bernstein del «Washington Post», per tutti noi Dustin Hoffman e Robert Redford nel film «Tutti gli uomini del presidente». Nel suo libro, però, lei smitizza la figura del confidente...

«Sì, è una delle cose che più mi hanno sorpreso, scavando in questa storia. Deep

Throat era Mark Felt, il vicedirett­ore dell’Fbi. Anch’io me l’ero immaginato, suggestion­ato dal film, come una persona eticamente motivata, disgustata dalla corruzione, dal gioco sporco dell’amministra­zione Nixon. In realtà è venuto fuori che fosse un carattere a tutti noi più famigliare, una presenza comune nei posti di lavoro. Felt era un burocrate amareggiat­o perché non aveva ottenuto la promozione che pensava di meritare. Quando contattò i reporter del «Washington Post» il suo obiettivo era danneggiar­e il suo nuovo boss, Patrick Gray, che lo aveva scavalcato diventando direttore dell’Fbi. Non gli importava molto delle possibili conseguenz­e su Nixon».

Il Watergate è stato un punto di svolta per il giornalism­o politico?

«Penso proprio di sì. Fino a quel momento i cronisti di Washington si limitavano a riportare le dichiarazi­oni dei presidenti o dei ministri. Era quasi un lavoro stenografi­co. Da lì in avanti sono cominciati i briefing con domande più aggressive e un lavoro di scavo sui retroscena politici».

Qualche giorno fa Margaret Sullivan, editoriali­sta proprio del «Washington Post», ha scritto che, se capitasse oggi, il Watergate avrebbe un esito diverso. I media sono troppo polarizzat­i per poter affondare anche una presidenza come quella di Nixon. È d’accordo?

«Sì. Lo abbiamo sperimenta­to con i due impeachmen­t a carico di Donald Trump. I media dell’estrema destra, guidati da Fox News, non solo hanno difeso ciecamente il presidente, ma hanno condotto una durissima campagna contro chi lo accusava. Il risultato è che oggi gran parte dell’opinione pubblica non crede più che ci siano giornalist­i di cui potersi fidare, come accadde con Woodward e Bernstein mezzo secolo fa».

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 ?? ?? Saggista Nato nel 1981 nello Stato americano del Vermont, Garrett Graff (nella foto qui sopra) ha lavorato per diverse testate e per alcuni importanti centri studi. Numerosi i suoi libri, tra i quali The Only Plane in the Sky («L’unico aereo nel cielo») dedicato alla vicenda dell’11 settembre e pubblicato nel 2019 da Avid Reader Press. Da segnalare anche altri suoi saggi, come Angel Is Airborne sulle conseguenz­e dell’assassinio di John Kennedy a Dallas (Asin, 2003)
Saggista Nato nel 1981 nello Stato americano del Vermont, Garrett Graff (nella foto qui sopra) ha lavorato per diverse testate e per alcuni importanti centri studi. Numerosi i suoi libri, tra i quali The Only Plane in the Sky («L’unico aereo nel cielo») dedicato alla vicenda dell’11 settembre e pubblicato nel 2019 da Avid Reader Press. Da segnalare anche altri suoi saggi, come Angel Is Airborne sulle conseguenz­e dell’assassinio di John Kennedy a Dallas (Asin, 2003)

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