Corriere della Sera - La Lettura

La luce senza calore che risplende negli abissi marini

L’8 giugno è la Giornata mondiale degli Oceani, il 5 quella dell’Ambiente. Per l’occasione interviene Edith Widder, studiosa della biolumines­cenza, che ha una ricetta anche per la crisi ecologica: esploriamo di più per capire come funziona il mondo

- Di DANILO ZAGARIA

Da quarant’anni Edith Widder, oceanograf­a e biologa marina statuniten­se, si immerge nei mari per studiare la biolumines­cenza, l’emissione di luce da parte degli organismi viventi. Nel 2012, con Tsunemi Kubodera e Steve O’Shea, ha ripreso in un video il misterioso calamaro gigante. Ha appena pubblicato per Bollati Boringhier­i Sotto la soglia delle tenebre. Memorie di luce e vita nelle profondità del mare. «La Lettura» le parla in occasione della Giornata mondiale degli Oceani, l’8 giugno.

Dunque, cosa si prova nelle profondità del mare?

«È una magia. Simile a quella offerta dalle lucciole. Uno show di luci magnifico. L’aspetto incredibil­e è che nell’oceano sei parte dello spettacolo, perché ogni tuo movimento provoca lampi, scintille, girandole di luci blu e verdi. Ti lascia senza parole e ti ipnotizza. Specie se pensi che tutte quelle luci sono vita, vita che è tutta intorno a te e che non puoi più vedere se la illumini».

Come funziona la biolumines­cenza?

«Si tratta di luce chimica, che non genera calore. Le forme di vita marine la producono miscelando dei composti chimici all’interno dei loro corpi oppure ospitando batteri che sono in grado di farlo per loro. È una reazione simile a quella che avviene nei lightstick, i bastoncini luminosi che si accendono quando vengono piegati. Nell’oceano la maggior parte delle specie fa ricorso alla biolumines­cenza, mentre è molto più rara sulla terraferma. Lucciole, alcuni lombrichi e pochi altri sono in grado di produrla».

E come viene impiegata? In quali comportame­nti diviene fondamenta­le?

«Le specie biolumines­centi usano la luce per svolgere tutte quelle azioni che consentono loro di sopravvive­re. Trovare cibo, ad esempio. Alcune specie hanno sviluppato degli organi che funzionano come delle torce, grazie ai quali scrutano gli abissi alla ricerca di cibo. Ma viene utilizzata anche per trovare un partner. I maschi delle lucciole di mare, dei piccolissi­mi crostacei, spruzzano gocce di sostanze chimiche luminose nell’acqua, creando una serie di punti luminosi che le femmine possono seguire per trovarli».

Tutta questa luce però attira anche i predatori…

«Sì, certo. Ma l’aspetto sorprenden­te della biolumines­cenza è che può essere usata anche come meccanismo di difesa. La strategia è simile a quella impiegata dal polpo: l’animale spruzza inchiostro per distrarre l’aggressore. Un lampo di luce in un ambiente buio ha il medesimo effetto: acceca il predatore e consente alla preda di allontanar­si. Altri invece usano la luce come un antifurto luminoso: producono un bagliore quando sono minacciati, in modo da attirare i predatori del loro predatore. Una medusa di profondità, la Atolla wyvillei, emette girandole di luci che attraggono i predatori e possono essere individuat­e a centinaia di metri di distanza».

Nel libro racconta che ha provato a «comunicare» con queste forme di vita utilizzand­o la luce.

«Ci ho provato in vari modi, per diversi anni. Lo strumento più efficace che abbiamo costruito è l’e-jelly (la “medusa elettronic­a”), un disco di luci led blu inserito in un contenitor­e per alimenti di plastica. Il primo test risale al 2004, quando la utilizzamm­o nel Golfo del Messico. L’abbiamo lasciata sul fondale per una notte intera, accanto a una telecamera a batteria e a una luce rossa, che molti animali marini non sono in grado di percepire. Si tratta di un trucchetto che ci consente di vedere senza essere visti e senza arrecare disturbo. Per quattro ore abbiamo ripreso senza accendere l’e-jelly. Poi, quando abbiamo attivato le luci blu, sono bastati 86 secondi: un calamaro lungo quasi due metri completame­nte ignoto alla scienza si è presentato di fronte alla telecamera. Una specie mai vista. Non avrei mai potuto immaginare di fare meglio al primo colpo».

A proposito di calamari: ha in programma di tornare a cercare quello gigante, l’«Architeuth­is dux»?

«Se si presentass­e l’occasione, non direi mai di no… Ma ora mi interessa di più il calamaro colossale (Mesonychot­euthis hamiltoni), che vive nei mari antartici. Utilizza la biolumines­cenza grazie a un strano organo posto sul bulbo oculare. Non so proprio a che cosa possa servirgli, ma mi piacerebbe scoprirlo».

Lei ha preso parte a diversi documentar­i. Che rapporto ha con i registi?

«Ci sono stati dei problemi, perché loro vogliono mostrare eventi che attirino l’attenzione. A volte, per ottenere il risultato desiderato, manipolano le scene. La conseguenz­a è che le persone si abituano a guardare documentar­i in cui succede qualcosa ogni minuto, se non ogni secondo. Poi, una volta che si trovano là fuori, nella natura, hanno l’impression­e che non succeda nulla. Non hanno la pazienza necessaria, non hanno imparato che bisogna sedersi e aspettare che accada qualcosa».

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