Corriere della Sera - La Lettura
Dopo la mareggiata la vita resta indenne
La raccolta di Biancamaria Frabotta non era nata per essere l’ultima, ma la sua improvvisa scomparsa l’ha resa postuma. Con il senno di poi, i testi suonano davvero come il consuntivo di un’appassionata militanza umana e letteraria
Bisogna subito dire che il nuovo libro di Biancamaria Frabotta, Nessuno veda nessuno (Mondadori), che esce a poche settimane dalla scomparsa improvvisa della poetessa, non era stato scritto e a tutti gli effetti terminato per essere l’ultimo. È soltanto per la malagrazia del destino, di conseguenza, che si è costretti a leggerlo come il capitolo conclusivo di una cinquantennale storia di poesia.
Le tante voci diverse che si sono fatte sentire quando Frabotta è mancata — compagni di strada più o meno vicini, semplici lettori, tanti allievi di generazioni anche molto diverse (ha insegnato Letteratura italiana alla Sapienza, nella sua Roma, dov’era nata nel ’46) — dicono non solo della considerazione e, spesso, dell’affetto di cui godeva, ma anche dell’importanza riconosciuta alla sua opera poetica e, più generalmente, alla sua stessa presenza attiva all’interno della nostra poesia contemporanea, a partire da quella profonda svolta socio-culturale ed estetica, forse anche più che politica, che è stato il Sessantotto. Chi abbia letto, ad esempio, il volume Tutte le poesie 1971-2017 (è uscito nel 2018 sempre per Mondadori), avrà senz’altro preso atto del carattere militante delle sue prime raccolte poetiche, e insieme dell’impossibilità di farne il portavoce di qualche manifesto ideologico. Per quest’autrice, infatti, e colpisce che questo accada già nelle poesie della giovinezza, anche le forme d’impegno più convinte e decise (si pensi anzitutto alla sua partecipazione al movimento femminista, e più in genere alle sue tante battaglie in nome dei diritti delle donne) non hanno mai avuto un carattere astratto o generico, ma sono sempre passate per l’auscultazione della propria vicissitudine personale, per la conoscenza della propria dimensione interiore e delle sue contraddizioni (fisiche, mentali, psicologiche, culturali), a partire da quella specie di prima ferita o strappo rappresentato per lei dall’evento stesso della nascita. Già allora parlava non a caso della sua particolare «azionecontemplazione» poetica.
Dagli esordi sono passati tanti anni ma la singolare natura militante di questa poesia nel profondo non è cambiata. Certo col tempo — che è insieme quello individuale e quello storico — alcune tematiche e argomentazioni sono diventate meno esplicite, l’avanzare degli anni ha portato, forse inevitabilmente, a guardare a sé stessi e alle cose del mondo con maggiore benevolenza (frequenze e sintonie positive con la vita che la Frabotta più tarda è riuscita a riconoscere e assecondare grazie al lavoro, espressivo e conoscitivo insieme, della prima Frabotta), e allora anche, nelle raccolte più recenti, l’approdo del discorso poetico a modi più pacati e rotondi, più rasserenati. Tuttavia, l’assetto fondamentale della sua poesia è rimasto lo stesso. Per questa poetessa, che è stracittadina e militante per definizione, la natura infatti conta non meno e forse più della storia. Così, se nelle sue poesie arriva anche alla considerazione della vita attiva, delle scelte e delle responsabilità, del senso determinato delle nostre esistenze, lo fa ogni volta partendo dal rapporto con la natura, e dunque da una visione a campo lungo, che si confronta sempre daccapo con qualcosa d’assoluto e forse d’ineluttabile come l’umano destino (è proprio questo, del resto, il suo grande tema, o meglio la sua grande questione, la sua sfida). Non è un caso che raccogliendo qualche anno fa, come detto, tutte le sue poesie in un unico volume, Biancamaria avesse deciso di porle sotto il segno di Leopardi, e in particolare di quel mirabile quanto terribile brano dello Zibaldone che descrive il cosiddetto giardino della sofferenza.
Così, se uno sgarbo del destino ha voluto che Nessuno veda nessuno fosse il suo ultimo libro, non è comunque un caso che qui si guardi direttamente proprio al destino o, detto in modo più semplice, a un possibile significato delle nostre vite. Da questo punto di vista sembra davvero un libro consuntivo, inteso certo non a chiudere ma almeno a prendere le misure agli anni trascorsi, alle tante cose subite e soprattutto fatte, agli incontri, alle amicizie, ai pezzetti di strada compiuti insieme a qualche amica o amico. Molte di queste poesie — è significativo — sono in forma di dedica (sovente rivolta a scrittrici o scrittori), e costruite allora come piccoli grandi bilanci o spiegazioni o minime giustificazioni di ciò che è stato. E pressoché invariabilmente la regola — una regola che potremmo dire appunto leopardiana — è che amori, passioni, attaccamenti, sentimenti, vocazioni, con tutto ciò che di giusto o magari di sbagliato si portano dietro, nascono su una specie di silenzio o di grande vuoto cosmico su cui inspiegabilmente, ma per questo tanto più prodigiosamente, accade la vita.
Anche i momenti di comunione più risolti con la natura o con gli altri (ad esempio quelli che fanno capo al «poderino» di Zara, nella «Maremma amara»), portano con sé il senso di questa solitudine universale, e dunque della lotta, cioè appunto dell’impegno comune necessario a condurre, se mai è possibile, la nostra nascita nell’orbita della luce: «Figli io non ne ho avuti, ma soltanto allievi. Altri travagli/ non ho conosciuto. Abbiamo veleggiato fra coppie/ di opposte fazioni. Poesia e destino. Legge e misura./ E ogni mareggiata ci ha restituiti indenni alla terraferma».