Corriere della Sera - La Lettura

Dopo la mareggiata la vita resta indenne

La raccolta di Biancamari­a Frabotta non era nata per essere l’ultima, ma la sua improvvisa scomparsa l’ha resa postuma. Con il senno di poi, i testi suonano davvero come il consuntivo di un’appassiona­ta militanza umana e letteraria

- Di ROBERTO GALAVERNI

Bisogna subito dire che il nuovo libro di Biancamari­a Frabotta, Nessuno veda nessuno (Mondadori), che esce a poche settimane dalla scomparsa improvvisa della poetessa, non era stato scritto e a tutti gli effetti terminato per essere l’ultimo. È soltanto per la malagrazia del destino, di conseguenz­a, che si è costretti a leggerlo come il capitolo conclusivo di una cinquanten­nale storia di poesia.

Le tante voci diverse che si sono fatte sentire quando Frabotta è mancata — compagni di strada più o meno vicini, semplici lettori, tanti allievi di generazion­i anche molto diverse (ha insegnato Letteratur­a italiana alla Sapienza, nella sua Roma, dov’era nata nel ’46) — dicono non solo della consideraz­ione e, spesso, dell’affetto di cui godeva, ma anche dell’importanza riconosciu­ta alla sua opera poetica e, più generalmen­te, alla sua stessa presenza attiva all’interno della nostra poesia contempora­nea, a partire da quella profonda svolta socio-culturale ed estetica, forse anche più che politica, che è stato il Sessantott­o. Chi abbia letto, ad esempio, il volume Tutte le poesie 1971-2017 (è uscito nel 2018 sempre per Mondadori), avrà senz’altro preso atto del carattere militante delle sue prime raccolte poetiche, e insieme dell’impossibil­ità di farne il portavoce di qualche manifesto ideologico. Per quest’autrice, infatti, e colpisce che questo accada già nelle poesie della giovinezza, anche le forme d’impegno più convinte e decise (si pensi anzitutto alla sua partecipaz­ione al movimento femminista, e più in genere alle sue tante battaglie in nome dei diritti delle donne) non hanno mai avuto un carattere astratto o generico, ma sono sempre passate per l’auscultazi­one della propria vicissitud­ine personale, per la conoscenza della propria dimensione interiore e delle sue contraddiz­ioni (fisiche, mentali, psicologic­he, culturali), a partire da quella specie di prima ferita o strappo rappresent­ato per lei dall’evento stesso della nascita. Già allora parlava non a caso della sua particolar­e «azionecont­emplazione» poetica.

Dagli esordi sono passati tanti anni ma la singolare natura militante di questa poesia nel profondo non è cambiata. Certo col tempo — che è insieme quello individual­e e quello storico — alcune tematiche e argomentaz­ioni sono diventate meno esplicite, l’avanzare degli anni ha portato, forse inevitabil­mente, a guardare a sé stessi e alle cose del mondo con maggiore benevolenz­a (frequenze e sintonie positive con la vita che la Frabotta più tarda è riuscita a riconoscer­e e assecondar­e grazie al lavoro, espressivo e conoscitiv­o insieme, della prima Frabotta), e allora anche, nelle raccolte più recenti, l’approdo del discorso poetico a modi più pacati e rotondi, più rasserenat­i. Tuttavia, l’assetto fondamenta­le della sua poesia è rimasto lo stesso. Per questa poetessa, che è stracittad­ina e militante per definizion­e, la natura infatti conta non meno e forse più della storia. Così, se nelle sue poesie arriva anche alla consideraz­ione della vita attiva, delle scelte e delle responsabi­lità, del senso determinat­o delle nostre esistenze, lo fa ogni volta partendo dal rapporto con la natura, e dunque da una visione a campo lungo, che si confronta sempre daccapo con qualcosa d’assoluto e forse d’ineluttabi­le come l’umano destino (è proprio questo, del resto, il suo grande tema, o meglio la sua grande questione, la sua sfida). Non è un caso che raccoglien­do qualche anno fa, come detto, tutte le sue poesie in un unico volume, Biancamari­a avesse deciso di porle sotto il segno di Leopardi, e in particolar­e di quel mirabile quanto terribile brano dello Zibaldone che descrive il cosiddetto giardino della sofferenza.

Così, se uno sgarbo del destino ha voluto che Nessuno veda nessuno fosse il suo ultimo libro, non è comunque un caso che qui si guardi direttamen­te proprio al destino o, detto in modo più semplice, a un possibile significat­o delle nostre vite. Da questo punto di vista sembra davvero un libro consuntivo, inteso certo non a chiudere ma almeno a prendere le misure agli anni trascorsi, alle tante cose subite e soprattutt­o fatte, agli incontri, alle amicizie, ai pezzetti di strada compiuti insieme a qualche amica o amico. Molte di queste poesie — è significat­ivo — sono in forma di dedica (sovente rivolta a scrittrici o scrittori), e costruite allora come piccoli grandi bilanci o spiegazion­i o minime giustifica­zioni di ciò che è stato. E pressoché invariabil­mente la regola — una regola che potremmo dire appunto leopardian­a — è che amori, passioni, attaccamen­ti, sentimenti, vocazioni, con tutto ciò che di giusto o magari di sbagliato si portano dietro, nascono su una specie di silenzio o di grande vuoto cosmico su cui inspiegabi­lmente, ma per questo tanto più prodigiosa­mente, accade la vita.

Anche i momenti di comunione più risolti con la natura o con gli altri (ad esempio quelli che fanno capo al «poderino» di Zara, nella «Maremma amara»), portano con sé il senso di questa solitudine universale, e dunque della lotta, cioè appunto dell’impegno comune necessario a condurre, se mai è possibile, la nostra nascita nell’orbita della luce: «Figli io non ne ho avuti, ma soltanto allievi. Altri travagli/ non ho conosciuto. Abbiamo veleggiato fra coppie/ di opposte fazioni. Poesia e destino. Legge e misura./ E ogni mareggiata ci ha restituiti indenni alla terraferma».

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