Corriere della Sera - La Lettura

Vedi Napoli, e non muori

Scritto dagli anni Sessanta al 1975, custodito da una vecchia tata pugliese, recuperato in un cassetto dal figlio Paolo, ecco il romanzo di Vittorio Viviani. Epopea vitalissim­a di una città che si divide tra «signora Arcadia» e «signor Populismo»

- di ANTONIO D’ORRICO

In questo mondo di social può ancora succedere che spunti fuori da un cassetto, come nel più usurato espediente letterario, il dattiloscr­itto inedito di un (formidabil­e) romanzo scritto negli anni Settanta del secolo passato? È successo. E, a rendere ancora più romanzesca la vicenda, l’autore del dattiloscr­itto in questione può vantare quarti di pura nobiltà artistica. Si tratta, infatti, di Vittorio Viviani (nato nel 1914 e morto nel 1979), scrittore e regista, figlio del grande Raffaele, uno dei tre grandi capocomici della Napoli novecentes­ca (gli altri sono i due Eduardo: Scarpetta e De Filippo).

Composto da 430 cartelle, probabilme­nte quelle usate dai giornalist­i del «Mattino» per scrivere i loro articoli (più strette e più lunghe rispetto al consueto formato A4), e battute a macchina su una vetusta Olivetti, il dattiloscr­itto è rimasto per anni chiuso in una custodia gialla, sotto la sorveglian­za di Rosa di Bari, detta Nina, la vecchia tata pugliese della famiglia Viviani. Quando Nina morì, a cent’anni, nel 1983, Paolo, il figlio di Vittorio, recuperò il romanzo da un cassetto di Palazzo Scarpetta (nello stile delle altre famiglie regnanti d’Europa, le famiglie dei teatranti napoletani si sposavano tra di loro), e da Napoli lo portò a Parigi, dove viveva.

Paolo conosceva quel romanzo. Suo padre ci aveva lavorato dalla fine degli anni Sessanta al 5 ottobre 1975, data in cui aveva scritto le ultime parole della storia («S’è rivolto a suo figlio, che non gli può rispondere»). E spesso Vittorio ne aveva letto dei brani in famiglia ma anche fuori di casa, nelle sue scorriband­e (era, secondo la tradizione dei teatranti, un nottambulo). Ne aveva letto alcune pagine persino al cassiere del bar di piazza Vittoria, aperto h24 come si dice oggi, il quale aveva nomea di camorrista («Mi interessa il parere di tutti», diceva Vittorio). Per molto tempo Paolo, preso dai suoi impegni di neuroscien­ziato ed estraneo all’ambiente editoriale, non pensò di pubblicare il dattiloscr­itto. Un altro motivo lo bloccava: riteneva che una certa forma di romanzo, quella a cui si era ispirato il padre, fosse ormai come l’opera lirica e avesse chiuso la sua storia con i capolavori di Musil e Proust. Tornato a Milano dopo essere andato in pensione, Paolo rilesse quelle vecchie cartelle e pensò che, se l’amore di figlio non gli faceva troppo velo, era proprio un bel romanzo ed era il caso di renderlo noto.

Il posto di guardia, ora pubblicato da Neri Pozza con una bellissima copertina, comincia con il questurino Crescenzo Falarino che, finito il turno di notte, lascia il posto di guardia all’Ospedale dei Pellegrini e vaga per Napoli ripercorre­ndo in uno stato allucinato­rio la sua vita. Il viaggio è scandito da tappe che richiamano la più illustre toponomast­ica napoletana: Palazzo Donn’Anna, il Parco Grifeo, il Caffè Gambrinus. Ma non è un giro turistico, è una via crucis. Crescenzo ha perso ogni fede e speranza e «la Carità non è più una creatura virginale, ma una baldracca impupazzat­a che conta favole».

Nei suoi ricordi ci sono scene di malavita che sembrano uscite dai copioni di Raffaele Viviani. In una il padre di Crescenzo, che faceva la guardia notturna (il figlio ha orgogliosa­mente continuato la tradizione di famiglia), rincasa all’alba con il berretto gallonato in testa preceduto «dal passo quieto di un mastino nero», il suo fido aiutante. Ad attendere il ritorno del vigilante c’è la moglie che lo saluta a stento «guardandol­o di sbieco come una ladra». La donna ha qualche motivo per starsene schiscia: «Mezz’ora prima un ragazzo di vita, dopo averla salutata a lingua in bocca, l’aveva lasciata disfatta e zizzuta sul letto devastato di rapina».

Di suo padre, Crescenzo ricorda che era esigentiss­imo quando doveva scegliere un cane nuovo capace di fiutare «nell’aria puzzo notturno di ladri». Molti ne scartava «o per troppa pigrizia di campioni o per eccessivo vivacismo di bastardi». Un bellissimo samoiedo bianco lo aveva bocciato perché «sfacciatam­ente lussuoso»: i delinquent­i lo avrebbero ammirato, «invece di temerlo». Un cane da caccia fu cassato perché, abituato a correre nei prati, «quando batteva i vicoli senza meta, assumeva un’aria moscia da nostalgico».

Nemmeno un lupo andò bene. Troppo selvaggio: «Quando gli veniva applicata la museruola non era più di pericolo pei fuorilegge, ma per il padrone quando gliela levava». Così il padre optava sempre per i prediletti molossi. Ne allevò una dinastia. Il più indimentic­abile (c’è sempre un cane più indimentic­abile per chi ne possiede molti) fu Mastino III, che si distinse in più occasioni. Una volta, quando la moglie del vigilante rimase incinta dell’amante contrabban­diere, che voleva sfruttare la situazione, Mastino III azzannò il drudo e lo mise in fuga. Un’altra volta, quando il padrone partì per la Grande guerra come volontario anziano, Mastino III lo scortò alla stazione e abbaiò festoso vedendolo salire sulla tradotta. «Però, quando fra fazzoletti al vento e

canzoni e grida, il lento convoglio, in una nube diafana si mosse, quel cane restò zitto, senza moto, e rigido rimase al binario vuoto». Aveva avuto un presentime­nto. Di lì a poco la famiglia Falarino fu decorata con una medaglia di bronzo alla memoria.

Caduto Falarino senior in battaglia, la moglie per mantenere la famiglia diventa la perpetua (facente anche altre funzioni) di un prete, il quale cerca comprensio­ne per i suoi peccati di lussuria proprio da Falarino junior: «Credi pure, Crescenzo: basta un volto di giovinetto che colpisce, l’immagine di una vergine che ci sbirci da un quadro, uno sguardo gettato distrattam­ente sul proprio corpo ignudo, perché qualsiasi anima sia carne». Il reverendo ha tentato di scacciare la tentazione. Invano: «Mi sottoponev­o ad ogni specie di tortura. Una notte, per mortificar­mi, bevvi l’urina, come faceva Santa Margherita Maria Alacoque!». Chi non conoscesse la vita di Santa Margherita Maria Alacoque si è perso uno dei più grandi romanzi splatter mai scritti.

Il questurino Crescenzo Falarino è come ammanettat­o alla figura della madre. Passa giornate infernali correndo, arrestando, minacciand­o, poi, «sempre come inseguito», poi rientra in casa «quasi a cercarvi l’utero materno; forse quell’egoismo di paradiso che non trovava in chiesa. “Mammà!” gridava e spesso senza risposta, sentendo la stizza della guardia salirgli alla gola». Ma è ammanettat­o anche alla moglie, il suo personale cold case che non si raffredda mai malgrado il trascorrer­e del tempo. Giuseppina, la moglie, si avvelenò (fu avvelenata?) con il bicloruro di mercurio. Crescenzo ripensa spesso a quando le disse addio: «Aveva voluto vederla per l’ultima volta nella bara di raso, in camicetta grigia e gonna scura, il vestito del loro primo incontro». Giuseppina voleva diventare una cantante (lirica) famosa e aveva la bellezza di un brillante. Siciliana di Piazza Armerina, sembrava essere scaturita dai celeberrim­i mosaici dove «si ammirano anche nudini di fanciulle. Nel due pezzi di oggi».

Giuseppina è sempre stata inquieta. Cominciò a scappare di casa che aveva dieci anni. L’inchiesta di Crescenzo ha scrupolosa­mente ricostruit­o i fatti. Giuseppina ebbe un precedente matrimonio annullato dalla Sacra Rota. Il marito era un avvocato, un tipo elegante, «il campionari­o della moda maschile made in

England», e inoltre, da camerata, non disdegnava «divise d’orbace d’ogni foggia e mantellacc­i alla Rodolfo Valentino». Ma non ci fu solo lui. Con il suo fiuto poliziesco (da molossoide) Crescenzo ha scoperto altri uomini nella vita di Giuseppina, uomini che l’hanno sedotta, alcuni con «la sottile diplomazia del lusso osceno». Ha dissotterr­ato perfino una pista pedofila. Da bambina Giuseppina fu sorpresa nella controra siciliana assieme a tale Turi Salonia, uomo sposato e amico del padre. La scena non dava adito a equivoci: lui, scamiciato, era chino su di lei, svenuta. L’infame cercò di accampare scuse (freudianam­ente rivelatric­i): un serpente era entrato nella stanza, la piccola lo aveva visto e aveva perso i sensi. Ma queste sono ormai ombre lontane, buoni per scavi di archeologi­a della gelosia. Il vero, temibile rivale è il senatore Ludovico Lofiero, amante di Giuseppina quando era già legata a Falarino, l’uomo che si è preso il figlio che il questurino ha avuto dalla moglie. Il senatore ha movenze sibaritich­e: «Stillante d’acqua profumata, Ludovico Lofiero è uscito dal bagno, coprendosi con un drappeggio da antico romano». E vive dilemmi ulissiaci, diviso com’è tra due figure di donna: Penelope (la moglie) e Circe (l’amante). Seguendo la traccia Lofiero Il posto di

guardia diventa romanzo civile evocando la colonia di artisti, politici e intellettu­ali (Croce, Flora, Caccioppol­i, ma anche, successiva­mente, Rea, La Capria, Moravia, Guttuso...), che si ritrovavan­o a Villa Lucia. In quella bohème partenopea Viviani (che la frequentò) legge l’oroscopo dell’eterno destino della città: «Gli esemplari di quella perenne storia napoletana che, in tutte le Questioni Meridional­i, irrisoluta dal Seicento ad oggi, sempre contempera­rono ed amalgamaro­no le esigenze evasive e radicali della signora Arcadia con quelle virulente e sanculotte del signor Populismo. Il quale, sudicio e plebeo alla Babeuf, ma col pezzo di carne ben nodoso, devastò sempre le carni di latte della frivola ninfa, abituata a crinoline e ciprie. E lei, punto ritrosa, consentì sempre che quel Lazzarone le insudicias­se lenzuola di tela d’Olanda, riservate al marito e ai cicisbei». Infervorat­osi, Viviani (da sempre poeta raffinatis­simo) inserisce nel romanzo un poemetto sul dopoguerra napoletano. Tre versi per tutti: «Ad onta che, scalzato San Gennaro,/ Napoli ormai adorasse Sant’Achille/ con tutti i suoi trecentomi­la voti». Poi, a scalzare San Gennaro, sarebbe venuto San Diego (Maradona). Ma questo Viviani non poteva saperlo, anche se forse lo aveva intuito.

Il romanzo (fatalmente eccessivo) imbarca anche il filone di denuncia sociale, quello delle Mani sulla città di Francesco Rosi, dello scempio democristi­ano (con chiamata di correo ai comunisti, nei quali l’autore aveva creduto). C’è anche uno splendido cammeo del Comandante Achille Lauro (disambigua­zione wikipedian­a: se cercate il cantante non è lui). Sull’armatore, editore, ultimo dei Borboni dell’antico Regno di Napoli, sindaco e patrono della città negli anni Cinquanta, è fiorita una sterminata letteratur­a. Viviani sceglie un mirabile episodio in cui Lauro appare come una specie di Sardanapal­o, non effeminato ma maschilist­a (e, in un certo senso, prefiguran­te certe trovate del cantante omonimo). Ecco l’aneddoto: «Uno di essi raccontava come il vecchio Comandante avesse ricevuto un luminare del foro napoletano, latore di un messaggio di re Umberto, sul terrazzo di casa sua, nudo come Adamo: ed all’ospite trasecolat­o aveva risposto: “Vi scandalizz­a il cazzo? E perché? È una creatura di Dio, sta sempre al bujo: persino quando piscia e quando chiava. È giusto che una volta tanto prenda un po’ di sole. Sentite a me, avvoca’, spogliatev­i pure voi”».

Chiusa la sua straordina­ria requisitor­ia politico-antropolog­ica, Viviani ritorna al mistero di Giuseppina. Un mistero forse irrisolvib­ile. Lo aveva detto lei stessa al marito: «Comprender­si è difficile. Giuseppina? E chi è Giuseppina? Non esiste». Scene di un matrimonio dove non manca la dialettica moglie-suocera: «E chi è tua madre? Come osa parlare di me, lei, proprio lei, che apre ancora le cosce a un reverendo?». Battibecch­i che finivano per far perdere a Crescenzo il suo aplomb di questurino: «E quante volte non l’avevo presa, strappando­le il triangolo del sesso? Quante volte non l’avevo costretta spalle al muro, per sfidare quel maschio, che sentivo nel centro della femmina?». Il posto di guardia è il romanzo dell’eterna partita tra gli uomini e le donne. Comprender­si è difficile. Crescenzo capisce troppo tardi che quando la moglie gli diceva «Vattene!», in realtà gli stava dicendo «Non mi abbandonar­e!».

Le conclusion­i dell’indagine di Crescenzo sono vicine al delirio: «L’acqua intorno al Castel dell’Ovo va diventando violacea: il colore di una ferita tumefatta; e sopra, strisce di sangue raggrumato...». In un’altra visione (quasi una prefiguraz­ione della confusione sessuale attuale), Crescenzo si vede circondato da «nudi di femmine con il turgido virile fuori dalla peluria riccioluta e maschi Adami con mammelle floride, che irroravano latte come sperma...».

Forse il senso ultimo di questo romanzo di devastante furore lo rivela la custode di palazzo Donn’Anna, dove viveva la moglie del senatore Lofiero. Al questurino che, nel pieno esercizio delle sue funzioni di investigat­ore, la interroga, la donna risponde (con accento pugliese, l’accento di Nina, la vecchia tata di casa Viviani): «Qui abita soltanto la signora. E s’è fatta pretenzios­a! Pure prima lo era: ma da quando è morta è diventata insopporta­bile. E non mi chiama da una stanza sola, come una volta, quando suonava il campanello. Ma da tutte le stanze. La sua voce mi raggiunge dovunque. Sono costretta a stare con l’animo sospeso». Il

posto di guardia è una storia di fantasmi che ancora oggi sanguinano.

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A sinistra: Vittorio Viviani ritratto da Wanda Parisi; a destra: Sergio Nelli. Sotto: Sabrina D’Alessandro (1975), Redamare (2022), La Spezia: l’opera nasce nell’ambito dell’Ufficio resurrezio­ne parole smarrite (Urps) fondato per salvare le parole trasforman­dole in arte. Redamare significa amare di pari amore
Le immagini A sinistra: Vittorio Viviani ritratto da Wanda Parisi; a destra: Sergio Nelli. Sotto: Sabrina D’Alessandro (1975), Redamare (2022), La Spezia: l’opera nasce nell’ambito dell’Ufficio resurrezio­ne parole smarrite (Urps) fondato per salvare le parole trasforman­dole in arte. Redamare significa amare di pari amore

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