Corriere della Sera - La Lettura
Il cielo è blu ma così lontano
La ticinese Sara Catella dà voce alla levatrice di una remota valle di montagna, nel 1912. Un monologo
Lingua che si fa suono e suono che diventa lingua. È quella di una levatrice, quella di Caterina Capra che a Corzoneso, nell’isolata valle di Blenio (Svizzera), viene chiamata ad assistere al capezzale il prevosto del paese, don Antonio Bolgeri. Siamo nel novembre del 1912 e il romanzo di esordio di Sara Catella — autrice e traduttrice svizzera di 42 anni — si snoda essenzialmente nella camera da letto del religioso, che ha perso la parola e può solo ascoltare. Di fatto quello che Catella imbastisce in Le malorose. Confidenze di una levatrice èun monologo, che ha il passo del teatro ma, al tempo stesso, ha la forza di una lingua che diventa altro: ora pastiche narrativo, ora recupero di un dialetto che è lingua vera. Se è giusto scomodare la lezione lasciata da altri grandi scrittori — basti pensare al friulano tanto amato da Pier Paolo Pasolini e al dialetto di Pier Luigi Meneghello — è ancora più giusto dire che la scrittura di Catella imbocca una via al tempo stesso impervia e stupefacente. In questo suo primo romanzo — così denso e così forte — si vede e si sente quasi in diretta la vita della protagonista con la stessa intensità di lettura che suscitano le opere di Carlo Emilio Gadda e le piéce teatrali di Giovanni Testori.
Caterina Capra è un personaggio forte, di quelli che restano e che — come nota giustamente la scrittrice Laura Pariani nella prefazione al romanzo — dopo quasi un secolo di silenzio narrativo «si toglie il lucchetto e parla per più di due settimane a un prete». In questa specie di confessione arcaica, Catella ripercorre non solo la vita della protagonista ma anche un pezzo di storia dell’Italia, compreso il fenomeno dell’emigrazione. E interroga certi modi di pensare che furono di quell’epoca.
Una guida alle voci dialettali e ai dialettismi completa il volume e Matteo Ferrari nella postfazione indica i modelli narrativi di questo esordio nelle storie di vita contadina raccolte da Nuto Revelli (1919-2004) ne L’anello forte e dal ticinese Plinio Martini (19231979). L’autrice, che per creare il personaggio ha preso spunto da una delle donne ritratte dal fotografo svizzero Roberto Donetta (1865—1932), regala al lettore lampi di piccola forza con una scrittura in grado di connettere il presente alla storia familiare di ciascuno di noi. Un piccolo miracolo che accade quando la voce della protagonista racconta sé stessa ma anche storie che potrebbero essere accadute ai nostri nonni o ai nostri bisnonni: «Io ho pregato tutta la vita e adèss non capisco più niente. Ho visto troppe sofferenze tra i mocciosi, tra le donne attorno a me, troppe ingiustizie in dra fassòn in cui siamo trattate. Credo che il cielo è sempre blu, ma è così lontano per noialtre», si legge.
Anche la concisione — il testo si legge in poco meno di un’ora — suggerisce quanto la parola possa essere al tempo stesso volatile come l’aria e insieme preziosa ed essenziale. Dentro una vita, quella di Caterina, che l’autrice riesce a evocare in maniera efficace in una specie di non finito letterario, scelta che si dimostra uno dei tanti punti di forza del romanzo.