Corriere della Sera - La Lettura
Il nero dipinto di nero illumina la coscienza
Nella Genesi, prima del fatidico «Sia la luce!», tutto è tenebra. «Il nero dunque — ha scritto l’antropologo e storico francese Michel Pastoureau — ha preceduto ogni altro colore». Ed è proprio La luce del nero — così il titolo dell’esposizione aperta fino al 28 agosto — quella che esplora la mostra di Città di Castello, negli Ex Seccatoi del Tabacco, sede espositiva — insieme al centrale e quattrocentesco Palazzo Albizzini — della Fondazione Burri.
Proprio al colore nero (o non colore?) Alberto Burri (1915-1995) ha dedicato una parte consistente della propria produzione artistica, in maniera sempre più intensa dagli anni Settanta-Ottanta. E di nero aveva fatto dipingere totalmente anche questi spazi degli Ex Seccatoi, edifici industriali parte del suo lascito nella cittadina umbra dove era nato, per i quali aveva concepito con meticolosità persino la disposizione delle proprie opere, definendo il percorso nei cicli pittorici. L’esposizione in corso segna adesso la riapertura di nuovi spazi dei Seccatoi, con una riqualificazione globale durata sette anni e un investimento da dieci milioni. Le opere in nero sono quelle dello stesso Burri e di grandi come Vincenzo Agnetti, Bizhan Bassiri, Vasco Bendini, Enrico Castellani, Lucio Fontana, Hans Hartung, Jannis Kounellis, Francesco Lo Savio, Robert Morris, Louise Nevelson, Nunzio (Nunzio di Stefano), Claudio Parmiggiani, Mario Schifano, Pierre Soulages e Antoni Tàpies. «Burri ha realizzato interi cicli completamente neri, come quelli esposti permanentemente qui agli Ex Seccatoi. L’idea è stata quella di fare un percorso che partisse dagli artisti che hanno cominciato a introdurre il nero, per arrivare al nero completo», sottolinea
Bruno Corà, presidente della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri e curatore dell’esposizione.
Si parte, così, idealmente, dall’ucraino Kazimir Malevic (1879-1935) che nel 1915 realizzò il suo Quadrato nero su fondo bianco (qui in mostra solo in riproduzione). Fu proprio Burri a portare quell’intuizione alle estreme conseguenze. A partire da Nero 1, del 1948. «In quell’oscurità Burri si cala con la determinazione del poeta destinato a “cantare” l’abisso di un’epoca. Come Dante, Burri s’inoltra nell’oscurità della “selva”, rabdomante guidato dalla pittura, ricavando segni e senso nell’esperienza del cammino e dell’incontro», scrive lo stesso Corà nel catalogo che accompagna l’esposizione. Un critico come Marco Vallora ha persino elencato tutte le sfumature dei neri di Burri: «Neri lucidati, bituminosi, festosi, tragici, operati, sabbiosi, opachi, gessati, frullati, abbrustoliti, disciolti, aggettanti, brutali, delicati, fantastici, realistici, contrastati, sferzanti». Tipologie ampiamente rappresentate in questa rassegna: dalle combustioni ai neri materici, delle plastiche ai cretti in cui l’assenza di luce si insinua negli spacchi della materia. E se Burri è conosciuto per le opere di grandi dimensioni, qui in mostra se ne trovano anche di estremamente piccole. Sono le miniature sotto i 10 per 20 centimetri che, a partire dal 1953, l’artista umbro inviava alla famiglia di James Johnson Sweeney, direttore del Guggenheim di New York dal 1952 al ’60, segno di gratitudine per aver creduto in lui e aver ospitato le sue opere nella collezione newyorchese.
La mostra è anche un progetto di inclusività, per non vedenti e ipovedenti: partner organizzativi oltre alla Fondazione Burri sono Atlante servizi culturali e Fondazione Istituto dei ciechi di Milano. E la mostra è stata realizzata con il programma Europa Creativa 2020 e il progetto europeo Beam Up che in specifico riguarda i musei accessibili ai ciechi. Il percorso prevede infatti la presenza di pannelli in braille e riproduzioni tattili delle opere da esplorare con le mani. C’è poi una parte dell’esposizione in cui vedenti e non vedenti vengono messi sullo stesso piano, un percorso in cui si cammina nell’oscurità totale, orientandosi solo toccando le riproduzioni delle opere. «In questa mostra il nero non è soltanto un colore o la sua assenza. Ma è anche introspezione. Il buio, la caecitas come sentimento dei poeti e degli artisti che simboleggia la necessità di guardarsi dentro, farsi “veggenti”, vedere le epoche, il tempo, tutte le realtà umane. Con il nero vedi prima in te stesso, un’oscurità che ci riguarda tutti», spiega ancora Corà.
Di Lucio Fontana è in mostra Concetto spaziale, attese del 1959: cinque tagli in diagonale su una nera tela ottagonale, un rimando al suo Ambiente spaziale a luce nera del 1948-49, opera con cui a Milano Fontana anticipò l’arte ambientale, fatta di spazio e luce (o della sua assenza). Nel 1959 Enrico Castellani realizzò la sua Superficie nera, qui esposta, primo esempio delle estroflessioni che caratterizzeranno tutta la sua produzione successiva. Il carico di nero carbone del Senza titolo di Kounellis del 1967, sparso sul pavimento e delimitato da una linea di vernice bianca, è rottura di schemi. Alcune foto qui in mostra ritraggono l’artista di origine greca col volto coperto, mentre realizza opere «alla cieca»: il nero fonte di ispirazione. Come per l’americano Robert Morris, ritratto mentre modella una scultura a occhi chiusi: i suoi tre bronzi del 1995 Auris caeca, Sermo caecus e Manus caeca rappresentano un trittico su una triplice «cecità», di orecchio, di parola e di mano. Nero è anche il segno delle cancellature di Emilio Isgrò, presente a Città di Castello con Dizionario Utet Italia del 1969 e con Avo del 1977: il segno scuro copre parti di testo, lasciandone libere altre e liberando altri significati per le parole. E ancora si susseguono le «sciabolate» di Hartung, i montaggi di oggetti di Louise Nevelson, le domande metafisiche di Vasco Bendini, gli «assiomi» di Agnetti, le assenze di Parmiggiani, le monocromie di Schifano e Lo Savio.
Dopo Città di Castello, la mostra sarà a The Glucksman, museo di arte contemporanea dell’University College di Cork, Irlanda, e in Croazia al Muzej suvremene umjetnosti (Msu) di Zagabria.