Corriere della Sera - La Lettura
La voce di Dianne Reeves Jazz anche dove il jazz non c’è
che si è esibita con i Berliner Philharmoniker e con Pat Metheny, che si è fatta accompagnare al pianoforte da Daniel Barenboim e che ama la musica brasiliana, rivendica l’anima afroamericana. Sarà a Spoleto il 3 luglio
Quando nel 2003 cantò e improvvisò sul palco dei Berliner Philharmoniker, i musicisti dell’orchestra più famosa del mondo, allora diretti da Simon Rattle, non riuscivano a toglierle gli occhi di dosso. Abituati come sono a misurarsi sempre con cantanti classici, si sono ritrovati piacevolmente interdetti e incuriositi davanti a una star del jazz, bella e appariscente. Ma, sopratutto, davanti a una musicista per la quale la partitura è soltanto un canovaccio da dove partire, per inventare lì per lì una variazione dopo l’altra, salendo e scendendo a proprio piacimento lungo l’intero registro vocale su temi a presa immediata firmati da George Gershwin. Intonando How long has this been goin on?, A foggy day e altre canzoni, la sua voce sposta gli accenti, masticando e degustando le parole, scandendo le sillabe, rammendandole l’una con l’altra, allungandone a volte la durata, senza mai perdere però quella scansione del tempo in 4/4 che fa battere il piede al pubblico.
Dianne Reeves (1956), afroamericana di Detroit, figlia di un cantante (morto quando lei aveva due anni) e di una trombettista, nipote di Charles Burrell (contrabbassista e primo afroamericano a entrare in un’orchestra classica, la Denver Symphony Orchestra), cugina del compositore e produttore George Duke, scoperta e lanciata nel 1974 dal trombettista Clark Terry, chiamata da Harry Belafonte come cantante principale dal 1983 al 1986, ha inciso una ventina di dischi a proprio nome (il primo, Dianne Reeves ,è per la Blue Note, datato 1987; l’ultimo per la Concord, Beautiful life, risale invece al 2014). La sua carriere vanta collaborazioni prestigiose, cinque Grammy (di cui uno per la colonna sonora del film di George Clooney Good Night and Good Luck), il National Endowment for the Arts, la più alta onorificenza che gli Stati Uniti conferiscono agli artisti jazz. E lei si è sempre mossa comodamente all’interno del mainstream jazz. Che è la corrente maestra, lontana dagli sperimentalismi — quella rassicurante e amatissima dal pubblico americano — legata alla rilettura dei grandi standard che ne hanno incorniciato l’immaginario agli occhi di mezzo mondo.
Reeves ha però frequentato, e frequenta ancora, con rara sensibilità interpretativa fra l’altro, anche un po’ di universo sonoro brasiliano (agli esordi lavorò per esempio a fianco di Sérgio Mendes), facendo indossare — come tanti anni prima aveva fatto Ella Fitzgerald in alcune sue storiche registrazioni per l’etichetta Pablo — nuovi abiti ai brani arcinoti di samba e bossa nova firmati soprattutto da Antônio Carlos Jobim, o trascinando in quelle atmosfere gli standard di jazz. Uno dei collaboratori storici di Reeves è non a caso un brasiliano, il chitarrista Romero Lubambo — strumento classico, suonato senza plettro, corde in nylon, sonorità carezzevoli, sapienza ritmica e profondità armonica — che sarà con lei anche nell’unico concerto italiano che la cantante terrà il 3 luglio a Spoleto (Perugia) per il Festival dei due mondi.
A «la Lettura» la cantante tiene però a spiegare che «quella delle atmosfere del latin e i recital con le orchestre sinfoniche sono solo una parte della mia attività», quasi a voler rimarcare che lei è soprattutto una jazzista, che il suo humus più profondo è quello afroamericano. È vero, sono pochi i lavori che l’hanno portata fuori dal suo terreno d’elezione per mostrare a un pubblico altro che cosa può essere uno standard con improvvisazione in scat (lo stile con il quale si inventano linee melodiche che imitano onomatopeicamente il suono di uno strumento a fiato) e che l’hanno vista incidere nel 1999 con Daniel Barenboim al pianoforte o nel 2017 ai Proms londinesi della Bbc con orchestra sinfonica diretta da John Mauceri, o ancora, nello stesso anno in gruppo con Pat Metheny alla Casa Bianca. Una piccola parte del suo lavoro, sì, ma decisiva per capire come l’immagine del jazz mainstream, a differenza di quello d’avanguardia, riesca a scavalcare i confini di nicchia in cui la musica afroamericana viene confinata.
Quando «la Lettura» raggiunge telefonicamente Dianne Reeves nella sua casa di Denver, in Colorado è mattina presto. La sua voce è squillante, gli «wow», gli «yeah» e gli «oh» danno alla conversazione un taglio poco formale. Le chiediamo del repertorio, delle canzoni che più ama. Si ferma. Tace. «Non ne ho una in particolare». Ci ripensa. «No..., un momento, se devo sceglierne una, dico Stella by Starlight di Victor Young». E aggiunge: «Amo le ballad. Mi piace entrarci dentro, fondermi con la musica e il testo». Sui tempi lenti Reeves mostra infatti tutta la sua forza interpretativa. Nel registro medio e grave i colori della sua voce diventano maestosi. Si può arrivare a pensare addirittura a Sarah Vaughan, la vocalist più completa del jazz moderno, colei che riuscì più di ogni altra cantante a tenersi a contatto con l’evoluzione strumentale del linguaggio. Nel 2001 Reeves le rese omaggio incidendo per la Blue Note The Calling: Celebrating Sarah Vaughan, ma voltandosi nuovamente indietro cita «Bridges come disco del mio cuore. Il perché, mi chiede?». Sospira: «Perché è un disco speciale. Fatto con un gruppo speciale. Mi piace come mi sono sentita quando lo registravo». Indimenticata in quell’incisone Blue Note del 1999 è la sua versione in crescendo di Suzanne di Leonard Cohen in cui la voce è accompagnata da accordi ribattuti del pianoforte di Billy Childs e contrappuntata dal sassofono soprano di Kenny Garrett. «In quel disco canto anche brani di Peter Gabriel, Milton Nascimento (ritorna il Brasile, ndr), Joni Mitchell. La musica è musica e il jazz è un abito che le puoi fare indossare».
Reeves è anche insegnate di canto. Tiene masterclass. Racconta: «Il ruolo di un insegnate dovrebbe essere quello di aiutare gli allievi prima a capire e poi a costruire il proprio strumento, la propria voce. Sembra facile, ma non lo è affatto». Secondo lei i giovani pensano troppo alla tecnica? «Quando imparano solo a scuola, sì. Con il jazz sono necessarie anche le lezioni del palco. Intuizione, emozioni, interpretazione, tutto ciò che fa scoppiare la musica, non si può apprendere solo a scuola. Ho incontrato giovani di talento con voci potenzialmente incredibili, ma che non sono in grado di gestirle, perché il jazz, ancora di più degli altri generi, ha bisogno dell’ascolto reciproco, del dialogo, di quello che chiamiamo interplay. La tecnica non è tutto e il jazz è una forma d’arte vivente. Ogni esibizione è diversa dalla precedente e dalla successiva. Perché è identificazione della vita con la musica. Quando si parla di espressione, non bisogna dimenticare che da sera a sera la stessa canzone cambia, perché l’umore cambia». Ha un nome emergente per il futuro del canto jazz? «Ah, ne ho anche più d’uno. Tutte giovani. Partiamo con Jazzmeia Horn, poi Samara Joy, Christie Dashiell che è fenomenale, e Cécelie McLorin Salvant. Sono queste le mie magnifiche quattro al momento».
La chiacchierata vira senza forzatura su alcune cantanti storiche di jazz e sulle associazioni libere che le vengono in mente. Per Reeves, Betty Carter è «espressione di libertà», Carmen McRae e Anita O’Day sono «l’eleganza». Shirley Horn «con il suo modo di cantare e di accompagnarsi al pianoforte ti può trasportare dentro atmosfere sospese», mentre Lena Horne «è stata una pioniera», Abbey Lincoln incarna invece «il respiro e lo spirito del jazz» e Cassandra Wilson «la purezza». Dee Dee Bridgewater «è fuoco e gioia», Ella Fitzgerald «è la magia della musica». Ci chiede: «Posso aggiungere io un nome?». Prego. «Vorrei citare Andy Bey. Avrebbe meritato più attenzione e più successo». Bey è l’uomo-jazz, oggi ottantaduenne, con voce da baritono e un’estensione di quattro ottave.