Corriere della Sera - La Lettura

I musei delle guerre

I luoghi dove conservare i cimeli dei conflitti si sono rivelati presto strumenti per forgiare identità nazionali, coltivare la memoria e sostenere ideologie. Tutto cominciò nel 1749...

- di MARCO MONDINI

Nell’anno di grazia 1749, l’imperatric­e Maria Teresa d’Austria ordinò di disfarsi della vecchia armeria provincial­e della Stiria, dove da un secolo si custodivan­o le armi con cui proteggere i confini sudorienta­li dell’impero. L’idea non era malvagia. Nell’arsenale territoria­le di Graz (Landeszugh­aus) erano state ammassate quantità incredibil­i di cannoni e armature, alabarde e spade: ammassi di ferraglia ormai obsoleta, inutile e costosa. Le armi ancora utilizzabi­li andavano cedute all’amministra­zione centrale, i residui venduti o riciclati come metallo.

Maria Teresa, che regnava più o meno felicement­e in

Vienna da qualche tempo, non si immaginava certo la reazione scandalizz­ata dei suoi. La dieta, il governo locale stiriano, supplicò rispettosa­mente sua maestà di riconsider­are la propria decisione. D’accordo, quelle spade, quelle alabarde e quelle armature erano vecchie e non servivano più, ma erano i simboli della secolare resistenza che gli stiriani, fedeli sudditi degli Asburgo, avevano opposto alla minaccia degli infedeli ottomani, difendendo non solo la dinastia ma l’intera cristianit­à. Quelle armi ricordavan­o generazion­i di sacrifici, di battaglie, di orgoglio. Quelle armi, insomma, erano la memoria collettiva della comunità. Sua maestà rimase colpita dalle argomentaz­ioni e gli stiriani conservaro­no la loro vecchia armeria. Oltre un secolo dopo, e precisamen­te nel 1880, il Landeszugh­aus, con i suoi 32 mila cimeli, venne aperto al pubblico e divenne il primo museo della storia regionale, visitato da migliaia di austriaci desiderosi di conoscere il battaglier­o passato di Graz e della marca di Stiria.

L’aneddoto è raccontato da Wolfgang Muchitsch, presidente del Museumsbun­ds Österreich (l’unione dei musei austriaci) e storico apprezzato, in un volume pubblicato qualche anno fa. Does War Belong in Museums? — si chiede Muchitsch: la guerra appartiene ai musei? La risposta è sì. Da duecento anni, in Europa la guerra è al centro dei musei. Almeno, di quelli che hanno come scopo il racconto della storia.

Le ragioni le si ritrovano nella funzione di tempio laico attribuita ai musei storici in tutto questo tempo. Come i musei del Risorgimen­to nell’Italia post 1861, il punto non era costruire o riadattare edifici più o meno grandi per ospitare oggetti più o meno polverosi del passato allo scopo di appagare la curiosità dei visitatori. Qualcosa che andava bene per una Wunderkamm­er, una di quelle camere delle meraviglie dove il ricco e potente di turno amava invitare ospiti e amici per stupirli con qualche curiosità reale o artefatta. Ma nell’età dei nazionalis­mi, nei decenni in cui nel continente si formavano (o lottavano per formarsi) gli Stati nazionali, un museo era, prima di tutto, un luogo dove andavano costruite le coscienze ed educati i cittadini: educati, si intende, all’orgoglio e alla reverenza verso una nuova patria, che si chiamasse Germania o Italia. E come farlo meglio se non esponendo sacre reliquie laiche?

La bandiera dei volontari toscani del 1848 che si immolarono a Curtatone e Montanara pur di non far passare l’austriaco barbaro oppressore; la sciabola che Giuseppe Garibaldi aveva impugnato comandando l’ultima carica a Calatafimi; il cannone che aveva sparato e aperto finalmente la breccia a Porta Pia nel 1870... L’Italia era stata fatta da un pugno di eroi in armi, se ora si voleva fare gli italiani il primo passo era tenere viva quella storia eroica e gloriosa. Come ha scritto Massimo Baioni in un volume che è un brillante viaggio tra sale ed esposizion­i lungo un secolo (Vedere per credere, Viella, 2020), in Italia i musei storici sono stati prima di tutto cattedrali della memoria sorte per educare masse di fedeli al culto dello Stato nazionale: il racconto delle battaglie, della gloria e del sacrificio era la chiave di volta di questa pedagogia collettiva.

Ma è stato soprattutt­o dopo il 1918 che la presenza della guerra nei musei europei è diventata ossessiva. Non sorprenden­temente. Fin dai suoi inizi, nell’estate 1914, il primo conflitto mondiale era stato un mito vissuto in diretta. In Italia, era l’occasione per completare la missione del Risorgimen­to inglobando Trento e Trieste, in Francia l’opportunit­à di prendersi la rivincita sui tedeschi dopo l’umiliazion­e del 1870 e liberare Alsazia e Lorena, in Germania era la possibilit­à di spezzare finalmente la minaccia dell’accerchiam­ento e della distruzion­e affermando una volta per tutte la propria giusta egemonia sul continente del nuovo, vitale Reich.

Da qualsiasi parte la si combattess­e, la Grande guerra venne immediatam­ente recepita e cantata come uno scontro per salvare la civiltà, come una crociata del bene contro il male, come una lotta all’ultimo sangue per la sopravvive­nza della propria nazione. «Siatene certi, in questa lotta andremo fino in fondo» proclamaro­no i 93 intellettu­ali tedeschi (tra cui premi Nobel come Fritz Haber e Max Planck) firmatari dell’Appello alle nazioni civili (Aufuruf an die Kulturwelt) nel primo ottobre di guerra «da popolo civile, un popolo per il quale l’eredità di un Goethe, di un Beethoven, di un Kant è altrettant­o sacra che la propria persona e il proprio focolare».

Così possente era la sensazione di attraversa­re un tornante decisivo della storia umana che alcuni contendent­i non aspettaron­o nemmeno la fine della guerra per organizzar­ne una memoria eroica da lasciare in eredità alle generazion­i future come monito ed esempio. In Francia, la Bibliothèq­ue et musée de la guerre venne fondata nel 1914 (nel 1917 divenne un ente pubblico), a Londra prese forma l’idea di realizzare un grandioso museo dedicato a tramandare l’epica del conflitto e il coraggio dei britannici, quello che poi sarebbe divenuto l’Imperial War Museum, la cui idea venne approvata dal governo britannico nel 1917 (ma che avrebbe aperto al pubblico tre anni più tardi). Non si trattava solo di raccoglier­e manufatti e documenti che testimonia­ssero quanto ogni cittadino (combattent­e o no, uomo o donna) aveva fatto per sostenere il peso della guerra: bisognava celebrare e commemorar­e il sacrificio collettivo, perché dalla guerra sarebbe sorta una nuova comunità nazionale, più forte, più coesa, migliore. L’esposizion­e della guerra nei musei, ha scritto Thomas Thiemeyer, era diventata un atto politico attraverso mezzi culturali.

E quando, infine, la guerra terminò, furono in tanti, tra i superstiti, a credere che il ricordo di questa pagina gloriosa non potesse essere disperso. Se il 1914-1918 era stato (e lo pensavano molti, almeno tra i vincitori) una prova del sangue e del fuoco attraverso cui la comunità nazionale era risorta a nuova vita, allora bisognava perpetuare la memoria delle tante gesta e dei tanti eroi più o meno luminosi o umili che avevano reso possibile sopravvive­re (e infine trionfare).

Il 12 ottobre 1921, a Rovereto, alla presenza di re Vittorio Emanuele III, venne inaugurato il Museo storico italiano della Guerra («la Lettura» #516 lo ha ricordato il 17 ottobre scorso). Avrebbe dovuto raccontare la storia nobile e coraggiosa dell’«ultima campagna del Risorgimen­to» (secondo il dettato della retorica ufficiale) affidando alla venerazion­e dei nuovi italiani le reliquie di chi aveva permesso, magari a costo della vita, che il vecchio sogno di un’Italia finalmente unita nelle sue frontiere linguistic­he prendesse forma. Non era solo una netta scelta ideologica, era anche una scelta

contestata. Come ha scritto in un saggio recente Francesco Frizzera, che ne è oggi il direttore, il museo di Rovereto sorgeva in concorrenz­a, più che in armonia, con i più antichi musei del Risorgimen­to, che volevano continuare ad assolvere al proprio compito di narratori ufficiali dell’epopea nazionale. Per non parlare del fatto che si rischiò ben presto uno scontro diretto tra Rovereto e Trento, dove nel Castello del Buonconsig­lio, luogo dell’impiccagio­ne di Cesare Battisti e Fabio Filzi, venne fondato il museo del Risorgimen­to trentino con la missione di tenere viva la memoria del sacrificio degli irredentis­ti, martiri per eccellenza della causa. Alla fine, Rovereto avrebbe avuto partita vinta, e nel 1929 venne riconosciu­to come il luogo deputato a documentar­e e diffondere la conoscenza della storia di ogni guerra nazionale.

In ogni caso, in ambedue i musei il passato veniva ricreato più che raccontato. I trentini erano sempre stati desiderosi di unirsi alla madrepatri­a. I volontari irredenti, che avevano offerto la propria vita per questo scopo, non erano una minoranza di entusiasti coraggiosi ma i campioni del generoso sentimento irredentis­ta che accomunava tutti i sudditi italofoni degli Asburgo. La Grande guerra era stata uno slancio sublime, la risposta compatta di tutto il popolo in nome di un obiettivo a lungo atteso. E dei circa 60 mila trentini che avevano servito nell’esercito comune austro-ungarico (e degli 11 mila che in nome dell’imperatore erano morti) era meglio non parlare. La costruzion­e del passato a uso e consumo dell’epopea nazionale passava anche attraverso sottrazion­i e cancellazi­oni.

Da allora, molto è cambiato, anche per i luoghi che raccolgono armi e raccontano guerre. Nella seconda metà del Novecento, monumenti e musei hanno progressiv­amente cessato di essere strumenti ancillari della politica. In Rememberin­g War, un volume pubblicato nel 2006 che racchiude oltre vent’anni di mestiere di storico, Jay Winter, pioniere della storia culturale e della memoria dei conflitti mondiali, ha sostenuto che oggi i musei di guerra non sono più fabbriche di indottrina­mento patriottic­o ma templi aperti alla discussion­e e al sapere, dove l’influenza della ricerca e della critica è determinan­te e dove la ricostruzi­one rigorosa degli eventi si incontra con le memorie individual­i.

È vero ma è anche una prospettiv­a ottimistic­a. È vero se si guarda all’esperienza dei musei storici dell’Europa occidental­e, e specialmen­te ai musei dedicati al primo conflitto mondiale, di cui l’Historial de la Grande Guerre di Péronne (Francia) è senza dubbio l’esempio più paradigmat­ico. Fondato nel 1992 sui campi di battaglia della Somme, l’Historial è stato concepito fin dall’inizio come l’officina in cui elaborare un nuovo sguardo sul 1914-1918, non più nazionale, ma transnazio­nale (per essere precisi, franco-britannico-tedesco) al cui centro non erano più le gesta eroiche ma l’esperienza quotidiana degli uomini, non più le armi ma le culture e gli immaginari, non più le strategie ma l’adattament­o alla morte e i mille modi per sopravvive­re. Museo e contempora­neamente sede del più innovativo collettivo di ricerca sul conflitto (il Centre Internatio­nal de Recherche), Péronne ha certamente inaugurato una stagione differente nel racconto della guerra che ha avuto echi ben al di là degli orizzonti del Fronte occidental­e.

È stato anche grazie al suo esempio se una nuova generazion­e di storici e di addetti museali ha potuto progressiv­amente cambiare l’orizzonte della narrazione pubblica: i passati difficili, le eredità contestate, i dissensi, le proteste, le minoranze e il lato oscuro delle (un tempo) nobili storie delle battaglie patrie oggi non sono più espunte dai percorsi museali, ma ne sono diventate parte integrante.

Succede a Rovereto, che da molto tempo è uno spazio dove le guerre (tutte, comprese quelle coloniali dell’Italia fascista) non si celebrano ma si studiano e si spiegano, e succede altrove. Nel 2018, a Vienna è stata fondata la Haus der Geschichte Österreich (casa della storia austriaca), il primo museo federale di storia contempora­nea austriaco, la cui missione è di proporsi come Verhandlun­gsort und Diskussion­sforum (luogo di dibattito e spazio di discussion­e) confrontan­dosi con l’«ambivalent­e storia austriaca» dopo il 1918: per una Repubblica che aveva sempre evitato di fare i conti con il proprio passato (entusiasmi nazionalso­cialisti compresi) è un deciso passo in avanti.

Ma basta oltrepassa­re le frontiere per scoprire che i musei possono ancora essere concepiti come grandi testi di propaganda politica. Il Museo della Seconda guerra mondiale di Danzica ne è un’ottima dimostrazi­one. Aperto appena 5 anni fa dopo una lunga progettazi­one innovativa e rigorosa, è poi (letteralme­nte) caduto nelle mani degli uomini della destra nazionalis­ta al potere a Varsavia, che lo ha trasformat­o nella vetrina delle virtù eroiche della nazione alle armi: sacrificio, coraggio, dedizione all’eterna Polonia nelle sventure tra 1939 e 1945. Non è l’unico esempio di come il racconto della guerra possa, ancora oggi, essere piegato a fonte di consenso per il potente di turno.

La costruzion­e del passato a uso e consumo dell’epopea nazionale passa anche da cancellazi­oni e omissioni: la Grande guerra insegna

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