Corriere della Sera - La Lettura
ARTE E ANTROPOLOGIA CONVERGENZE INATTESE
In una famosa conferenza tenuta negli anni Cinquanta, Edward Evans-Pritchard scrisse: «L’antropologia sociale è una sorta di storiografia e quindi, in ultima analisi, di filosofia o arte che studia le società come sistemi morali e non come sistemi naturali, è interessata al design piuttosto che ai processi e perciò va in cerca di modelli e non di leggi scientifiche. Interpreta, piuttosto che spiegare». Anche ora, scrivono Anna Castelli e Franco La Cecla in Scambiarsi le arti (Bompiani, pp. 320, € 16), artisti e antropologi scoprono inattese convergenze e spesso si scambiano i ruoli. Più che interpretare, arte e antropologia sembrano incaricarsi di dare conto di «presenze» difficilmente traducibili nelle nostre lingue e nella mitologia della crescita che pervade la modernità.
Il libro è ricco di storie, aneddoti, incontri di viaggio. Negli anni Sessanta, Richard Nonas, un giovane antropologo che si occupava di società native del Nord del Messico, fu a tal punto colpito dalle narrazioni dei suoi interlocutori rispetto al loro rapporto con l’ambiente circostante e con la storia («Ero cactus, ogni anno ero cactus, ma quel cactus era sempre morto», si sentì dire), da convincersi che il modo di sentire dei nativi americani non potesse essere tradotto in un testo. L’unica via di accesso ai loro saperi era l’esperienza partecipata: solo l’arte, con le sue evocazioni e ambivalenze, con la sua comunicazione senza parole, gli poteva consentire di trasmettere qualcosa di quelle esperienze. «Occorreva fare un salto verso qualcosa di diverso — scrivono Castelli e La Cecla — da un atteggiamento di ricerca partecipata a un altro tipo di ascolto che non traduce, ma in qualche modo preserva l’intraducibilità della percezione del mondo». Nonas divenne uno degli artisti più interessanti della scena americana.
Circa un decennio prima, Maya Deren, regista d’avanguardia newyorkese, fece il percorso inverso. Andò inizialmente ad Haiti decisa a filmare i riti di possessione vudu. Provò a resistere con tutte le sue forze ma durante un lungo ed estenuante rito cadde in una trance di possessione. Decise allora di diventare antropologa, per provare a comprendere qualcosa di quella forza per lei misteriosa che l’aveva pervasa.
Dall’antropologia all’arte, andata e ritorno. È un percorso a doppio senso di marcia che, di questi tempi, travolge musei, viaggi, collezioni e persino le nostre idee sull’ambiente. Con un testo piacevole e mai banale, gli autori (secondo Michael Taussig, che scrive l’introduzione, «è la prima volta, io credo, che una storica dell’arte e un antropologo scrivono insieme un libro sull’arte») ci invitano a percorrere connessioni, fratture, attriti tra queste due dimensioni.