Corriere della Sera - La Lettura
La diplomazia dell’arte
Ministeri, tribunali, forze dell’ordine, ambasciate, Interpol, funzionari, esperti, intermediari, qualche trafficante... Sono molti i soggetti coinvolti nelle (estenuanti) trattative internazionali per riportare a casa capolavori a vario titolo — legale o spesso illegale — esposti nei musei di mezzo mondo. Clamoroso il caso dell’«Atleta ripescato nell’Adriatico nel 1964, attribuito a Lisippo e finito dopo vicende rocambolesche al Getty di Malibu, California. Che non vuole saperne di restituirlo
Opere d’arte, spesso di importanza universale, trafugate o partite dall’Italia senza autorizzazioni (o con autorizzazioni «viziate») e che in Italia dovrebbero rientrare: è il difficile compito della cosiddetta diplomazia culturale, un vasto mondo che coinvolge, a vario titolo, ministero della Cultura, procure della Repubblica, reparti specializzati di Carabinieri (Nucleo tutela patrimonio) e Guardia di Finanza, ambasciate, Interpol, funzionari, esperti, intermediari...
Un mondo non facilmente penetrabile, costantemente impegnato in «casi» — vecchi e mai risolti o di cronaca recente — che però non sempre possono essere resi pubblici proprio perché delicati e resi ancora più complessi dalle diverse legislazioni, soprattutto extra europee. Le cause principali di una diaspora che continua anche nel presente possono riassumersi in grandi blocchi, a partire dai conflitti bellici. Si stima infatti che ancora oggi siano migliaia i tesori trafugati dai nazisti alla fine della Seconda guerra mondiale.
Tra questi, la mai ritrovata Testa di fauno di Michelangelo, marmo giovanile di piccole dimensioni che fino al 1943 era esposto al Museo del Bargello di Firenze, e che al tempo, per proteggerlo dai bombardamenti, fu ricoverato in un castello a Poppi, vicino ad Arezzo. Ci sono poi le opere d’arte vittime della mafia, a partire dal ricercato numero uno a livello mondiale: la Natività con i Santi Lorenzo e Francesco di Caravaggio, rubata a Palerla notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969. Ci sono infine i piccoli e grandi capolavori, frutto di esportazioni clandestine, opere archeologiche provenienti da scavi illeciti o ritrovamenti in mare. Il caso più celebre, oggetto di un duro braccio di ferro in corso da decenni, quello dell’Atleta di Fano, scultura in bronzo del IV secolo avanti Cristo attribuita a Lisippo. L’opera è finita al Getty Museum di Malibu, California, che l’acquistò nel 1977 per poco meno di 4 milioni di dollari dopo rocambolesche vicende (l’Atleta fu ritrovato da un motopesca italiano nelle acque dell’Adriatico 1964). C’è una sentenza della Corte di Cassazione del 2019 — ultimo atto della diatriba legale tra Italia e Getty — che ne decreta la confisca e il rientro in patria. Ma il museo californiano è da sempre fermo sulle sue posizioni: «Qualsiasi ordine di confisca è contrario al diritto americano e internazionale». E non sembra al momento destinato a miglior fortuna un altro cold case dai recenti sviluppi: quello che riguarda l’importante copia romana del Doriforo di Policleto, originale greco perduto. Scoperta tra 1975 e 1976 a Castellammare di Stabia, esportata clandestimo namente, la scultura si trova negli Usa, al Minneapolis Institute of Art. Il 21 febbraio la Procura di Torre Annunziata ha avanzato all’autorità giudiziaria statunitense una richiesta di assistenza per eseguire un decreto di confisca emesso il mese precedente. La rogatoria punta a ottenere la restituzione del capolavoro. «Si tratta di un’opera inestimabile», si legge nel documento. Il Mia l’acquistò nel 1985, dopo un passaggio in Germania, al valore (dichiarato) di 2,5 milioni di dollari, dal trafficante di Basilea Elie Borowski. Stesso nome che comprare nell’atto della Procura in merito all’esportazione illegale, emersa nell’ambito della stessa indagine, di cinque pannelli affrescati provenienti da una villa romana a Boscoreale ed esposti al Getty.
La diplomazia culturale si muove anche nei casi di trasferimenti di opere d’arte, di proprietà privata, almeno formalnel
gli anni della Seconda guerra mondiale con i loro conflitti smisurati e locali, vittorie, sconfitte, deportazioni, invasioni, ritirate, bombardamenti, rappresaglie, stragi, esecuzioni, olocausti. Il professore vedeva nel suo Museo un ideale tempio o cimitero di pace, ovvero di disarmo, dove deporre le spade, i lanciafiamme o i siluri, che avrebbero dovuto diventare un materiale didattico, le zanne di una belva preistorica che non avrebbero potuto sbranare più nessuno. Forse non è illecito dubitare, a livello inconscio, del pacifismo di de Henriquez — «Sottomarini usati compro e vendo», diceva una sua inserzione su un giornale.
Negli ultimi tempi della sua vita fra traslochi, trasferimenti e vagabondaggi in diverse città e Paesi, a Roma, a Trieste durante l’occupazione titoista e successivamente