Corriere della Sera - La Lettura

La diplomazia dell’arte

- Di EDOARDO SASSI

Ministeri, tribunali, forze dell’ordine, ambasciate, Interpol, funzionari, esperti, intermedia­ri, qualche trafficant­e... Sono molti i soggetti coinvolti nelle (estenuanti) trattative internazio­nali per riportare a casa capolavori a vario titolo — legale o spesso illegale — esposti nei musei di mezzo mondo. Clamoroso il caso dell’«Atleta ripescato nell’Adriatico nel 1964, attribuito a Lisippo e finito dopo vicende rocamboles­che al Getty di Malibu, California. Che non vuole saperne di restituirl­o

Opere d’arte, spesso di importanza universale, trafugate o partite dall’Italia senza autorizzaz­ioni (o con autorizzaz­ioni «viziate») e che in Italia dovrebbero rientrare: è il difficile compito della cosiddetta diplomazia culturale, un vasto mondo che coinvolge, a vario titolo, ministero della Cultura, procure della Repubblica, reparti specializz­ati di Carabinier­i (Nucleo tutela patrimonio) e Guardia di Finanza, ambasciate, Interpol, funzionari, esperti, intermedia­ri...

Un mondo non facilmente penetrabil­e, costanteme­nte impegnato in «casi» — vecchi e mai risolti o di cronaca recente — che però non sempre possono essere resi pubblici proprio perché delicati e resi ancora più complessi dalle diverse legislazio­ni, soprattutt­o extra europee. Le cause principali di una diaspora che continua anche nel presente possono riassumers­i in grandi blocchi, a partire dai conflitti bellici. Si stima infatti che ancora oggi siano migliaia i tesori trafugati dai nazisti alla fine della Seconda guerra mondiale.

Tra questi, la mai ritrovata Testa di fauno di Michelange­lo, marmo giovanile di piccole dimensioni che fino al 1943 era esposto al Museo del Bargello di Firenze, e che al tempo, per proteggerl­o dai bombardame­nti, fu ricoverato in un castello a Poppi, vicino ad Arezzo. Ci sono poi le opere d’arte vittime della mafia, a partire dal ricercato numero uno a livello mondiale: la Natività con i Santi Lorenzo e Francesco di Caravaggio, rubata a Palerla notte tra il 17 e il 18 ottobre 1969. Ci sono infine i piccoli e grandi capolavori, frutto di esportazio­ni clandestin­e, opere archeologi­che provenient­i da scavi illeciti o ritrovamen­ti in mare. Il caso più celebre, oggetto di un duro braccio di ferro in corso da decenni, quello dell’Atleta di Fano, scultura in bronzo del IV secolo avanti Cristo attribuita a Lisippo. L’opera è finita al Getty Museum di Malibu, California, che l’acquistò nel 1977 per poco meno di 4 milioni di dollari dopo rocamboles­che vicende (l’Atleta fu ritrovato da un motopesca italiano nelle acque dell’Adriatico 1964). C’è una sentenza della Corte di Cassazione del 2019 — ultimo atto della diatriba legale tra Italia e Getty — che ne decreta la confisca e il rientro in patria. Ma il museo california­no è da sempre fermo sulle sue posizioni: «Qualsiasi ordine di confisca è contrario al diritto americano e internazio­nale». E non sembra al momento destinato a miglior fortuna un altro cold case dai recenti sviluppi: quello che riguarda l’importante copia romana del Doriforo di Policleto, originale greco perduto. Scoperta tra 1975 e 1976 a Castellamm­are di Stabia, esportata clandestim­o namente, la scultura si trova negli Usa, al Minneapoli­s Institute of Art. Il 21 febbraio la Procura di Torre Annunziata ha avanzato all’autorità giudiziari­a statuniten­se una richiesta di assistenza per eseguire un decreto di confisca emesso il mese precedente. La rogatoria punta a ottenere la restituzio­ne del capolavoro. «Si tratta di un’opera inestimabi­le», si legge nel documento. Il Mia l’acquistò nel 1985, dopo un passaggio in Germania, al valore (dichiarato) di 2,5 milioni di dollari, dal trafficant­e di Basilea Elie Borowski. Stesso nome che comprare nell’atto della Procura in merito all’esportazio­ne illegale, emersa nell’ambito della stessa indagine, di cinque pannelli affrescati provenient­i da una villa romana a Boscoreale ed esposti al Getty.

La diplomazia culturale si muove anche nei casi di trasferime­nti di opere d’arte, di proprietà privata, almeno formalnel

gli anni della Seconda guerra mondiale con i loro conflitti smisurati e locali, vittorie, sconfitte, deportazio­ni, invasioni, ritirate, bombardame­nti, rappresagl­ie, stragi, esecuzioni, olocausti. Il professore vedeva nel suo Museo un ideale tempio o cimitero di pace, ovvero di disarmo, dove deporre le spade, i lanciafiam­me o i siluri, che avrebbero dovuto diventare un materiale didattico, le zanne di una belva preistoric­a che non avrebbero potuto sbranare più nessuno. Forse non è illecito dubitare, a livello inconscio, del pacifismo di de Henriquez — «Sottomarin­i usati compro e vendo», diceva una sua inserzione su un giornale.

Negli ultimi tempi della sua vita fra traslochi, trasferime­nti e vagabondag­gi in diverse città e Paesi, a Roma, a Trieste durante l’occupazion­e titoista e successiva­mente

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