Corriere della Sera - La Lettura

L’Africa rivuole l’Africa

I primi passi della Francia, l’impegno del Belgio, gli altri

- Testo di ANTOINE PECQUEUR visual data di ARTHUR BEAUBOIS-JUDE

Nel novembre 2017, il presidente francese Emmanuel Macron si reca a Ouagadougo­u (Burkina Faso). Davanti agli studenti dell’università afferma che «il patrimonio africano non può essere unicamente nelle collezioni private e nei musei europei» e annuncia che «entro 5 anni» si dev’essere «in grado di restituirl­o temporanea­mente o definitiva­mente all’Africa». Il discorso ha immediatam­ente grande eco nel mondo dei musei, pronto nel difendere il concetto di inalienabi­lità delle opere d’arte. «Questa dichiarazi­one ha significat­o un vero passo in avanti. Esisteva un’amnesia sull’argomento, sebbene richieste di restituzio­ne da parte di Paesi africani fossero già state avanzate al momento dell’indipenden­za, negli anni Sessanta-Settanta. Ma all’epoca c’era stata una resistenza compatta e organizzat­a dei musei occidental­i. Gli Stati africani avevano poi accantonat­o il tema, poiché le politiche del Fmi li incitavano a concentrar­si sulle loro attività economicam­ente redditizie, e la cultura veniva dunque trascurata», ci spiega

Bénédicte Savoy, storica dell’arte all’Università tecnica di Berlino e autrice, con il senegalese Felwine Sarr, di un rapporto sulla restituzio­ne del patrimonio culturale africano, consegnato nel novembre 2018 a Macron. Il testo invoca il ritorno in massa degli oggetti saccheggia­ti durante la colonizzaz­ione. «Un sasso nello stagno, che contrasta con il principio del museo universale», sottolinea l’avvocato Pierre Noual, autore del saggio Restitutio­ns (éditions Belopolie).

Ma 5 anni dopo Ouagadougo­u, a che punto siamo? Lo scorso novembre lo Stato francese ha restituito al Benin statue, bastoni, troni. «È la prima volta che un Paese dell’Africa sub-sahariana ottiene da una ex potenza coloniale una parte così importante del proprio patrimonio: due tonnellate e mezzo. Il ministro della Cultura del Benin, Oswald Homéky, mi ha confidato che la restituzio­ne era per lui paragonabi­le alla caduta del Muro di Berlino. Non ci credeva», spiega Savoy. Le 26 opere, espropriat­e dai francesi alla fine del XIX secolo, sono state esposte nel palazzo presidenzi­ale del Benin. Siamo tuttavia lontani da un movimento di grande importanza: «Solo 7 Paesi africani hanno finora fatto domanda di restituzio­ne», osserva Noual. Perché in Africa molti Stati non hanno un diritto del patrimonio culturale e molti conservato­ri di musei sono ancora restii: addirittur­a i giovani sono spesso i più reazionari. Va ripensata la formazione». Chi si oppone alle restituzio­ni accampa la presunta mancanza di infrastrut­ture in Africa, le cattive condizioni di conservazi­one o il rischio di traffico d’opere d’arte. «Sono argomenti che si inseriscon­o in una forma di paternalis­mo occidental­e», ironizza Savoy. Ma certe voci critiche vengono anche dall’Africa stessa, interrogan­dosi sulle reali motivazion­i di questo processo. «La restituzio­ne è una maniera simbolica di rompere con la «Franciafri­ca», pur mantenendo relazioni economiche con i Paesi autoritari del continente», denuncia lo scrittore franco-congolese Wilfried N’Sondé, che mette in risalto anche problemi geografici: a quale Paese, per esempio, devono essere restituiti gli oggetti del regno del Congo, che oggi corrispond­e ad Angola, Repubblica de

mocratica del Congo (Rdc) e Congo? Senza contare un freno giuridico: per ogni restituzio­ne, il Parlamento francese deve votare una legge. Macron auspica dunque una legge-quadro, che permetta un «declassame­nto» delle opere. Su questo piano il Belgio ha appena segnato una tappa importante: il 28 gennaio il Consiglio di Stato ha approvato un progetto preliminar­e che riconosce il carattere alienabile dei beni legati al passato coloniale del Belgio. «L’approccio di Bruxelles è assai più globale della restituzio­ne mediatica di qualche oggetto», afferma Thomas Dermine, segretario di Stato per la politica scientific­a, che preferisce il termine ricostituz­ione a restituzio­ne: «L’idea di restituzio­ne è eurocentri­ca, mentre bisogna mettersi in una prospettiv­a africana di ricostituz­ione del patrimonio».

Questa procedura concerne gli oggetti saccheggia­ti dal Belgio quando occupava la Rdc, gran parte dei quali è conservata nell’Africa Museum. «Il 100% degli oggetti può essere oggetto di restituzio­ne, poiché il fatto coloniale crea un rapporto di ineguaglia­nza intrinseca. Per ogni richiesta della Rdc, una commission­e paritaria mista, di belgi e congolesi, delibererà», ci spiega Dermine. Il Belgio assegnerà 2,2 milioni di euro per sviluppare gli studi sulla provenienz­a, e conta così di sostenere la Rdc nella formazione di ricercator­i. «Si investe sulle persone più che sul mattone», ci dice il segretario di Stato. Infatti, il Museo nazionale di Kinshasa, inaugurato nel 2019, è stato costruito con fondi sudcoreani. Mentre a Dakar, il Museo delle civilizzaz­ioni nere è stato edificato con il denaro della Cina. Per le potenze asiatiche, non implicate in questioni post-coloniali, la cultura serve a favorire le relazioni geopolitic­he ed economiche.

Impegnata nell’iter di restituzio­ne è anche la Germania. Questo tema è addirittur­a stato iscritto nel contratto di coalizione del nuovo governo. Il dibattito si è acutizzato ancora di più con l’apertura, lo scorso dicembre, del Museo di etnologia del Forum Humboldt di Berlino, copia identica del vecchio castello dei Re di Prussia, dove sono esposti circa 20 mila pezzi provenient­i in gran parte dalle ex colonie tedesche. «Il soggetto è tanto più sensibile in quanto la Germania si è già trovata di fronte alla questione dei beni razziati dai nazisti», nota Savoy. È giocoforza constatare che gli oggetti depredati durante la colonizzaz­ione riguardano principalm­ente l’Africa. «Nessun’altra area geografica ha perso una parte così grande del proprio patrimonio. Ci sono stati saccheggi in America Latina, in Asia, in Oceania o anche in Europa, come il fregio del Partenone, ma in generale questi Paesi hanno potuto conservare una parte del loro patrimonio. In Africa non rimane quasi più nulla», aggiunge Savoy, che parla di «estrazione delle risorse naturali e culturali». Non bisognereb­be quindi immaginare un’armonizzaz­ione europea? «Le strutture legislativ­e sono proprie di ogni Paese, ma sarebbe utile creare una piattaform­a di scambio su scala europea per condivider­e le esperienze. E creare anche un senso dell’urgenza nei Paesi meno avanzati sulla questione», spiega Dermine.

«La messa in questione dell’eredità coloniale e Black Lives Matter rendono il soggetto più cruciale. La procedura dev’essere un’opportunit­à per una riconcilia­zione fra i popoli».

Dopo le collezioni pubbliche, il problema delle restituzio­ni toccherà al mercato dell’arte? Nelle vendite di arte primitiva, gli oggetti africani sono in testa. Contattate, le case d’asta restano sul vago. «Noi applichiam­o procedure rigorose di controllo per ogni oggetto, il che include l’otteniment­o di un contratto firmato dal venditore con garanzie che concernono il titolo e le licenze di esportazio­ne», ci dice Sophie Dufresne, portavoce di Sotheby’s, che detiene una posizione dominante nel settore, con il 35% del volume d’affari nel mercato delle arti primitive. Più che le problemati­che post-coloniali, è stata la crisi sanitaria a provocare una caduta del mercato, con l’annullamen­to di numerosi eventi. Sebbene il numero delle vendite sia nettamente diminuito, i prezzi sono rimasti globalment­e stabili.

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