Corriere della Sera - La Lettura

Le affollatis­sime solitudini cambiano voce

Una nuova antologia dello spagnolo Antonio Machado rilancia un autore da non archiviare

- Di DANIELE PICCINI

Si può dire che l’intero arco dell’opera poetica di Antonio Machado (1875-1939) soggiaccia al demone del tempo, sentito come fatale e inarrestab­ile lima. Tra molteplici forme e diramazion­i interne alla sua produzione (una più lirica e conchiusa, come nelle Soledades , le

Solitudini pubblicate in prima edizione nel 1903; una disposta al discorso, alla citazione, al dialogo), il sentimento del tempo è una costante profonda. È così che il battere inesorabil­e e monotono della pendola può ritornare dalle Soledades dell’esordio («Nella tristezza di casa rintocca/ il tic-tac della pendola. Silenzio») fin nel cuore della maturità, in un testo dei Campi di Castiglia (libro uscito nella sua forma originale nel 1912), Poesia di una giornata: «Tic-tac, tic-tac… Sempre uguale,/ monotono e deprimente./ Tic-tac, tic-tac, come il battito/ di un cuore di metallo./ In questi borghi, si ascolta / del tempo il battere? No./ In questi borghi si lotta/ senza tregua con la pendola,/ con questa monotonia/ che misura un tempo vuoto».

Il poeta, nativo dell’Andalusia, si era trasferito bambino a Madrid con la famiglia e si spostò poi a Soria, nella Vecchia Castiglia, come insegnante; quindi, dopo la morte dell’amata e giovanissi­ma moglie Leonor, tornò a vivere per un periodo nella provincia andalusa, a Baeza. Ma il tema della temporalit­à non è il frutto solo dell’inerte dimensione provincial­e: si tratta di un motivo coessenzia­le alla poesia di Machado, che sembra solcare la sua pagina, per avviarla a una purezza remota, non senza inclinazio­ni metafisich­e. Fin dalle Soledades il poeta ha coscienza della fugacità e si accosta a tratti alla ricerca di Dio, il punto bianco, la lacuna assorta, si direbbe, che attira a sé la materia della sua poesia. In particolar­e nelle Soledades l’intimità del canto detta le immagini emblematic­he ed evocative della sera e della solitaria fontana, resti di un’infanzia ritrovata nel canto: «Sì, ti ricordo, sera allegra e chiara,/ quasi di primavera,/ sera sfiorita, quando mi portavi/ il fresco e buon profumo della menta,/ e del fresco basilico,/ che teneva mia madre nelle aiuole./ Tu che mi hai visto immergere le mani/ pure nell’acqua quieta,/ per raggiunger­e gli incantati frutti/ che oggi sul fondo della fonte sognano…».

Ma molteplici, si diceva, sono le diramazion­i dell’opera di Machado. Nei Canti di Castiglia egli prende a intessere un discorso più ampio, inclusivo, in cui si sofferma su ciò in cui crede e spera. La poesia, dice, è «cosa cordiale» e così, citando Henri Bergson (di cui seguì un corso a Parigi) e Miguel de Unamuno, ragiona e argomenta da uomo di cultura e da poeta-intellettu­ale. Del resto, Machado è stato il cantore di un’idea di nazione, di una Spagna nuova, sorgiva, di contro a quella vecchia e conservatr­ice. È stato il poeta della Spagna repubblica­na opposta a quella fascista, diventando il simbolo, dopo la morte, di questa causa politica e culturale. Ma anche prima della guerra civile, Machado aveva sentito ed espresso con la sua generazion­e poetica (quella del ’98) il tramonto dell’impero spagnolo, il rinchiuder­si delle prospettiv­e, la crisi.

Non è dunque in una cifra proverbial­e che il poeta va rinchiuso, tanto più che spazia tra forme metriche diverse, dal sonetto al romancero narrativo (mirabile

La terra di Alvargonzá­lez), fino a scorci epigrammat­ici e proverbial­i che possono sfociare, nel Canzoniere apocrifo ,in condensazi­oni etico-filosofich­e e nell’invenzione di eteronimi. Machado va letto, non categorizz­ato o archiviato: quello della lettura o rilettura è appunto l’intento che anima l’antologia delle Poesie a cura di Matteo Lefèvre (Garzanti), in cui, dopo grandi imprese traduttive (di Oreste Macrì) e interpreta­tive (culminate nel Meridiano Mondadori del 2010 a cura di Giovanni Caravaggi, autore da poco di una monografia edita da Salerno), si of fre una scelta senza note di commento e in una nuova versione, di solito più attenta al senso e al ritmo che agli effetti fonici. La suggestion­e che si riceve è di un rinnovato e persistent­e incanto: una sorta di sgorgo sonoro, da cui si sparge una voce universale e profonda, tra memoria magica e dolore del tempo.

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