Corriere della Sera - La Lettura
Le affollatissime solitudini cambiano voce
Una nuova antologia dello spagnolo Antonio Machado rilancia un autore da non archiviare
Si può dire che l’intero arco dell’opera poetica di Antonio Machado (1875-1939) soggiaccia al demone del tempo, sentito come fatale e inarrestabile lima. Tra molteplici forme e diramazioni interne alla sua produzione (una più lirica e conchiusa, come nelle Soledades , le
Solitudini pubblicate in prima edizione nel 1903; una disposta al discorso, alla citazione, al dialogo), il sentimento del tempo è una costante profonda. È così che il battere inesorabile e monotono della pendola può ritornare dalle Soledades dell’esordio («Nella tristezza di casa rintocca/ il tic-tac della pendola. Silenzio») fin nel cuore della maturità, in un testo dei Campi di Castiglia (libro uscito nella sua forma originale nel 1912), Poesia di una giornata: «Tic-tac, tic-tac… Sempre uguale,/ monotono e deprimente./ Tic-tac, tic-tac, come il battito/ di un cuore di metallo./ In questi borghi, si ascolta / del tempo il battere? No./ In questi borghi si lotta/ senza tregua con la pendola,/ con questa monotonia/ che misura un tempo vuoto».
Il poeta, nativo dell’Andalusia, si era trasferito bambino a Madrid con la famiglia e si spostò poi a Soria, nella Vecchia Castiglia, come insegnante; quindi, dopo la morte dell’amata e giovanissima moglie Leonor, tornò a vivere per un periodo nella provincia andalusa, a Baeza. Ma il tema della temporalità non è il frutto solo dell’inerte dimensione provinciale: si tratta di un motivo coessenziale alla poesia di Machado, che sembra solcare la sua pagina, per avviarla a una purezza remota, non senza inclinazioni metafisiche. Fin dalle Soledades il poeta ha coscienza della fugacità e si accosta a tratti alla ricerca di Dio, il punto bianco, la lacuna assorta, si direbbe, che attira a sé la materia della sua poesia. In particolare nelle Soledades l’intimità del canto detta le immagini emblematiche ed evocative della sera e della solitaria fontana, resti di un’infanzia ritrovata nel canto: «Sì, ti ricordo, sera allegra e chiara,/ quasi di primavera,/ sera sfiorita, quando mi portavi/ il fresco e buon profumo della menta,/ e del fresco basilico,/ che teneva mia madre nelle aiuole./ Tu che mi hai visto immergere le mani/ pure nell’acqua quieta,/ per raggiungere gli incantati frutti/ che oggi sul fondo della fonte sognano…».
Ma molteplici, si diceva, sono le diramazioni dell’opera di Machado. Nei Canti di Castiglia egli prende a intessere un discorso più ampio, inclusivo, in cui si sofferma su ciò in cui crede e spera. La poesia, dice, è «cosa cordiale» e così, citando Henri Bergson (di cui seguì un corso a Parigi) e Miguel de Unamuno, ragiona e argomenta da uomo di cultura e da poeta-intellettuale. Del resto, Machado è stato il cantore di un’idea di nazione, di una Spagna nuova, sorgiva, di contro a quella vecchia e conservatrice. È stato il poeta della Spagna repubblicana opposta a quella fascista, diventando il simbolo, dopo la morte, di questa causa politica e culturale. Ma anche prima della guerra civile, Machado aveva sentito ed espresso con la sua generazione poetica (quella del ’98) il tramonto dell’impero spagnolo, il rinchiudersi delle prospettive, la crisi.
Non è dunque in una cifra proverbiale che il poeta va rinchiuso, tanto più che spazia tra forme metriche diverse, dal sonetto al romancero narrativo (mirabile
La terra di Alvargonzález), fino a scorci epigrammatici e proverbiali che possono sfociare, nel Canzoniere apocrifo ,in condensazioni etico-filosofiche e nell’invenzione di eteronimi. Machado va letto, non categorizzato o archiviato: quello della lettura o rilettura è appunto l’intento che anima l’antologia delle Poesie a cura di Matteo Lefèvre (Garzanti), in cui, dopo grandi imprese traduttive (di Oreste Macrì) e interpretative (culminate nel Meridiano Mondadori del 2010 a cura di Giovanni Caravaggi, autore da poco di una monografia edita da Salerno), si of fre una scelta senza note di commento e in una nuova versione, di solito più attenta al senso e al ritmo che agli effetti fonici. La suggestione che si riceve è di un rinnovato e persistente incanto: una sorta di sgorgo sonoro, da cui si sparge una voce universale e profonda, tra memoria magica e dolore del tempo.