Corriere della Sera - La Lettura
Il gesuita che armò il partigiano Johnny e la sua lingua
L’inglese Gerard Manley Hopkins fu moderno, isolato, geniale. Fenoglio e Montale lo amarono
Il nome di Gerard Manley Hopkins non ricorre spesso nella tradizione critica delle nostre lettere ma quelle poche volte senza dubbio con un certo peso. Dell’eccellenza, ma anche dell’originalità di questo poeta inglese, già brillantissimo studente ad Oxford, quindi fervido quanto inquieto gesuita (nato a Stratfort nel 1844, morì nel 1889 a Dublino, dove aveva trascorso gli ultimi anni), hanno parlato ad esempio Beppe Fenoglio ed Eugenio Montale, che tra l’altro si cimentarono entrambi con risultati notevoli nell’ardua impresa della sua traduzione. Fenoglio, rimarcando «l’esaltante fatica» che gli era costato appunto il tradurre anche solo un poco d’Hopkins, parlò di «uno stile da splendido isolato, da artista senza maestri e allievi» (difficile non pensare a quell’autentico unicum che è a sua volta Il partigiano Johnny). Mentre Montale fece a più riprese il nome di Hopkins (e del suo peculiare sprung rhythm) quale anello importante di una possibile linea della poesia moderna in cui l’approfondimento delle componenti ritmiche e musicali non rinunciava, bensì richiedeva fermamente la presenza delle istanze razionali e costruttive. Ed è questa una linea che da Baudelaire, attraverso lo stesso Hopkins, Browning, Eliot e qualche altro, arrivava ovviamente fino a lui, vale a dire fino a Ossi di seppia e soprattutto a Le occasioni.
In effetti, se l’orientamento di una parte fondamentale della poesia europea del Novecento, specie nella prima metà, fu di sostituire, per forza d’orecchio e insieme di ragione, al criterio di una rappresentazione mimetica e passivamente oggettiva quello, ben diverso, dell’autosufficienza oggettuale, dell’organicità intrinseca del singolo componimento poetico, allora il precedente della poesia di Hopkins risulta senz’altro importantissimo. Eccone solo un esempio: «S’accende il martin pescatore, avvampa la libellula;/ rotolato dal bordo nel tondo pozzo/ il sasso suona; vibra ogni corda pizzicata, d’ogni appesa campana/ la bocca scossa trova lingua per scagliare il suo nome;/ ogni cosa mortale fa una cosa e sempre quella:/ dirama l’essere che entro ognuno ha dimora».
Citiamo dalla bella traduzione di Viola Papetti, che ha curato da poco per Einaudi il volume Poesie 1875-1889.
Sono versi tra i più emblematici dell’autore, perché se da un lato dicono subito quanto sia arduo orientarsi nel suo immaginario poetico, dall’altro offrono anche una testimonianza diretta, quasi che qui l’atto poetico descrivesse sé stesso, di come il suo sistema di trasfigurazione metaforica o, detto più semplicemente, le sue immagini, siano tutt’altro che arbitrarie, ma tese semmai a proporsi, se possibile, come l’equivalente verbale (e dunque anche ritmico, musicale) del mondo che Dio ha creato. Di qui la singolare compresenza, nelle sue poesie, di enigmaticità e di evidenza, di carica spirituale e di concretezza.
Quando nel 1868 Hopkins fece il suo ingresso nella Compagnia di Gesù, distrusse quasi tutte le poesie che aveva scritto fino a quel momento. Soltanto parecchi anni più tardi avrebbe ricominciato a scrivere versi, che per altro decise di non pubblicare e di far leggere soltanto a pochi amici e interlocutori privati. Può darsi che anche questo sia un indizio di quanto rigoroso e profondo, abissalmente profondo, fosse per lui l’investimento poetico. In possesso di una fede incrollabile e di un ardore spirituale che ricorda quello di certi grandi mistici, Hopkins avvertiva con un patimento addirittura fisico le contraddizioni della storia, le ferite, i mancamenti del senso. Di conseguenza, la poesia diventa per lui uno strumento per comprendere appunto più profondamente, e soltanto allora per rendere lode alla creazione. Lo ha visto bene la curatrice del volume: «Questa poesia liturgica nasce nel tempo irredento, come tutte le cose dell’uomo, e nella morte, ma agisce nel non-tempo del rito». Tra i componimenti giovanili, più disponibili alla celebrazione della natura e dell’uomo, e quelli più tardi, maggiormente segnati dal tormento e dall’angoscia, Hopkins non è stato solo o tanto un precursore, quanto un autore capace di alcune poesie che davvero non temono confronti.