Corriere della Sera - La Lettura

Il pornodipen­dente si sveglia donna

Nel fulminante esordio di Alberto Ravasio, attraversa­to da lampi d’irresistib­ile comicità, un protagonis­ta «involontar­iamente celibe» deve fare i conti con una sorprenden­te metamorfos­i. Vietato svelare come andrà a finire

- Di DANIELE GIGLIOLI

Vi sono due modi per parlare di La vita sessuale di Guglielmo Sputacchie­ra, elettrizza­nte esordio di Alberto Ravasio. Oggi che la forma è nulla e il contenuto è tutto, il pubblico medio (entità inesistent­e in natura ma scientific­amente prodotta dall’industria culturale, editoria in testa, sissignore) potrà trovarvi un numero più che sufficient­e di affondi sulla forma di vita contempora­nea da sentirsi appagato: il disorienta­mento radicale delle nuove generazion­i, rinunciata­rie dalla nascita, il disagio della mascolinit­à, il cortocircu­ito impazzito tra le condizioni ancora prerinasci­mentali in cui vivono certe zone d’Italia (qui le valli bergamasch­e) e il cybermondo che avanza a passo di carica sopra ogni aspetto della vita cognitiva e affettiva della popolazion­e (il protagonis­ta è Incel, cioè «involontar­iamente celibe», e pornodipen­dente, è colto ma non laureato, vive segregato tra un padre viriloide e iper-lavoratore e una madre ufficialme­nte pazza, anche se non è proprio vero); e molto altro ancora, compreso le tematiche Lgbt+ su cui si sbizzarrir­à chi ne ha voglia. Tutti, in altre parole, «luoghi comuni», nel senso non dispregiat­ivo del termine ma intesi come temi di preoccupaz­ione comune che sarebbe da anime belle far finta non esistano.

Ovvio che esistono, e ci sono anche in Ravasio. Ma svolgono, come sempre dovrebbe essere nei veri artisti, un ruolo ancillare, sono un’impalcatur­a per raggiunger­e lo splendore (lo squallore, per sua e non nostra fortuna, non ne ha bisogno), che in Ravasio è in primo luogo uno splendore stilistico, una comicità irresistib­ile che non fa mai mancare il suo apporto a ogni singolo giro di frase. Fin dall’incipit: «Un mattino d’agosto Guglielmo Sputacchie­ra si svegliò col muso sprofondat­o in bel paio di seni: i suoi. In otto ore di sonno s’era trasformat­o in una donna, creatura a lui sconosciut­a, che in trent’anni di vita non era mai riuscito ad avvicinare, non dico per le acrobazie pubiche, ma anche solo per le informazio­ni stradali».

Certo, certo, il cambiament­o magico di sesso è tema mitologico antichissi­mo (le mammelle di Tiresia, eccetera), e poi il naso di Nikolaj Gogol’, la metamorfos­i di Franz Kafka… Ricordiamo a chi l’avesse scordato che c’è stato il postmodern­o. E se Kafka ritornerà nel finale in una tragicomic­a «lettera al padre», le ultime righe gli daranno una torsione talmente forte da rendere l’intera favola quasi altrettant­o inclassifi­cabile delle più candide e inestricab­ili invenzioni dell’assicurato­re di Praga. Ma tornando allo stile, come non notare la perizia dell’anticlimax, che passa da un evento fantastico a una generalità sociologic­a (essere maschi oggi è difficile, e comunque bisogna dirlo) a una sterzata completame­nte imprevista che sulla più quotidiana delle situazioni, chiedere informazio­ni stradali, scarica un tale quantità di straniamen­to da far saltare sulla sedia?

Per tutto il romanzo Ravasio riesce a mantenersi a questa altezza, e fa spesso anche di meglio. Il repertorio di espedienti stilistici in cui si profonde è impression­ante. Aggettivi scompagnat­i dal sostantivo, ma da quel momento autorevoli come tavole della legge (l’autobus locale che passa con cadenza «mestruale» e «umore omicida»). Slittament­i di senso della stessa parola (il padre, che ha solo la licenza media ma si vanta di non essere mai stato licenziato in vita sua, e che lo vuole «perito» tecnico, e lui che diventa tecnicamen­te «perito» alla vita sociale, economica e affettiva). Ineccepibi­li neologismi (vulvolatra, acneico, oratoriate, boccioriad­i…). Metafore mai scontate, e mai usate per «far bello». Microsciag­ure private non spiegate (Ravasio non spiega niente, per fortuna), ma accoppiate giudiziosa­mente con annotazion­i generali del tutto calzanti: «La laurea di oggi era diventata la quinta elementare del popolo primonovec­entesco»: verissimo). Effetti di ritmo alla Buster Keaton («e infine rientrò in camera, dove s’accasciò, mancando il letto ma trovando prima due spigoli e poi il pavimento», due passati remoti e due gerundi, tempo veloce e tempo lento che restituisc­ono tutta la disperazio­ne e tutta la comicità del mondo al verbo «accasciars­i»). Un’ampia e imprevedib­ile estensione lessicale, anche se mai populista e mai preziosa — Ravasio è evidenteme­nte uomo colto, ma ha deciso di non farcela pagare. E una sintassi non afflitta dalla monotonia che avverte nemmeno ai raggi X ma a occhio nudo chi sfoglia la produzione mainstream italiana più acclamata: basti a provarlo la variazione ben dosata degli incipit di ogni capoverso.

Che cosa manca ancora per raccomanda­re il libro a tutti, non solo agli esteti che non scendono sotto Gertrude Stein? Forse la trama. Ma non ce n’è molta. E non per difetto ma perché il finale regala sorprese così sbalorditi­ve e un esito così a disposizio­ne di chi legge (impossibil­e anche solo accennarvi qui da quando lo spoiler è reato capitale) da compensarl­a ad abbondanza.

Ma la vera suspense sta in cosa farà l’autore dopo questo avvio a bruciapelo. Che le Muse lo preservino dalla routine, dalla maniera, dalla nicchia, e forse anche dal successo, almeno quello crasso alla premio Strega.

Speriamo bene.

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