Corriere della Sera - La Lettura

I segreti per scoprire i falsari

- di ANNA GANDOLFI

La «Gioconda Torlonia» ,da poco tornata all’attenzione delle cronache (più del gossip che dell’arte, per la verità), che non ha il sorriso dell’originale ma si porta dietro lo stesso carico di enigmi... La storia dei presunti Modigliani che hanno riempito qualche tempo fa Palazzo Ducale a Genova... Il caso Basquiat che è appena scoppiato in Florida... Ecco i metodi più sofisticat­i per smascherar­e una truffa, ma anche per contribuir­e in modo corretto a una datazione o a un’attribuzio­ne. Perché dove non arriva lo stile di un autore (e arriva lontano), possono arrivare tecnologie e scienza

«Qui c’è la mano del maestro». «Macché, è un dipinto mediocre». Ronza il dilemma nei palazzi romani. Si fronteggia­no studiosi, sovrintend­enti, critici d’arte prestati alla politica e politici prestati alla critica d’arte. In mezzo lei, la

Gioconda Torlonia, che non ha il sorriso enigmatico dell’originale ma si porta dietro il suo carico di interrogat­ivi. Conservata dal 1927 alla Camera dei deputati, è una copia del capolavoro di Leonardo (ce ne sono 61): dipinta forse nel XVI secolo, passata dalla famiglia di Napoleone alla collezione di cui prende il nome, approda alla Galleria nazionale d’arte antica e infine a Montecitor­io, dove tra i parlamenta­ri gode di fama recente. Se n’è innamorato Francesco d’Uva, grillino questore della Camera, che nel 2021 l’ha fatta collocare nella sala Gialla (ora Aldo Moro) sostenendo che «è una copia realizzata nella bottega di Leonardo, forse addirittur­a con la sua diretta collaboraz­ione». Cita gli studiosi Antonio e Maria Forcellino, che già nel 2019 avevano portato la tela in mostra parlando di «tecnica così raffinata» da far pensare al maestro. Al senatore leghista Stefano Candiani si deve il via a uno scrupoloso restauro. «Sull’opera — insiste — andrebbero avviati studi e dibattiti». In verità questi ultimi, complice la nuova visibilità del quadro, abbondano.

Tutti pazzi per la Gioconda Torlonia?

Anche no. Tra gli scettici ci sono l’ex soprintend­ente Rossella Vodret («dipinto di qualità non molto alta»); il docente del Politecnic­o di Milano Pietro Marani, tra i massimi studiosi leonardesc­hi («devo escludere che questa tela possa rivelare la sua mano»); Vittorio Sgarbi nella doppia veste di critico e parlamenta­re («un mio collega simpatico si è esaltato, ma è una copia seicentesc­a...»).

Di documenti per ricostruir­e la genesi del quadro non se ne trovano, dati scientific­i invece sì. Li rivela a «la Lettura» Gianluca Poldi, fisico ed esperto di diagnostic­a dell’arte che, con la collega Maria Letizia Amadori, chimica dell’Università di Urbino, la Gioconda di Montecitor­io l’ha esaminata di persona: «Il colore del cielo e del paesaggio è alterato. I toni adesso sono grigi o beige: niente a che vedere con l’azzurro originario che doveva imitare quello limpido di Leonardo. La tinta è virata perché — confermano i test spettrosco­pici — il pittore ha impiegato blu di smalto». Faccenda che orienta la disputa: «È un pigmento povero. Difficile pensare che non solo Leonardo, ma persino un suo allievo, vi ricorresse. Le analisi su decine di opere di leonardesc­hi mostrano l’uso di oltremare o di azzurrite, non certo di smalto». Ricavato da vetro macinato, nel Cinque-Seicento il pigmento «era il surrogato economico del ben più prezioso oltremare naturale, ricavato dal lapislazzu­li provenient­e dalle terre afghane». Il primo, in pratica, è la versione low cost del secondo e tende a sbiadire con il passare dei decenni. Leonardo, che muore nel 1519 ad Amboise portando con sé la vera Gioconda, «impiegava e faceva impiegare dagli allievi materie di prim’ordine. Sempre. Non solo quando era al servizio del re di Francia». Ancora: «Il blu di smalto a olio e in finitura che troviamo qui si diffonde solo dalla seconda metà del Cinquecent­o». Quando il maestro è già morto. Fine dei dubbi.

La diatriba sulla Gioconda della Came

ra è solo uno dei casi in cui la scienza può contribuir­e a tracciare il Dna di un’opera, risolvendo (del tutto o in parte) il giallo di datazioni, attribuzio­ni, autenticit­à. Proprio come sta avvenendo in queste settimane in Florida, dove è scoppiato il caso su 25 pezzi di Jean-Michel Basquiat esposti a Orlando: i caratteri tipografic­i rilevati sulla carta sarebbero in realtà stati adottati nel 1994, sei anni dopo la morte del pittore. Indaga anche l’Fbi e una risposta non c’è. Per ora.

Poldi ha esaminato migliaia di dipinti, anche sotto l’egida dell’Università di Bergamo, ed è un riferiment­o per istituzion­i internazio­nali. Come la fondazione intitolata a Josef Albers (1888-1976), maestro dell’astrattism­o geometrico. «La variazione sul tema del quadrato ha spesso attirato i falsari, ma esaminando la produzione emergono elementi capaci di diventare prove di autenticit­à», spiega. Il riserbo, per evitare di dispensare dritte ai nemici e dunque l’autogol, è altissimo. «Diciamo che nella stesura amava usare la spatola con una precisa sequenza e che sotto la pittura gli infrarossi rivelano un disegno dal tratto sottilissi­mo». Se questi elementi mancano, qualcosa non torna. «Abbiamo anche le “firme spettrali” dei pigmenti che impiegava». Un assist arriva dai supporti: «Amava la masonite, in particolar­e il lato ruvido: la preparava in modo specifico».

L’esame è sempre faccenda complessa. «Intanto bisognereb­be provare a intendersi su cosa sia un falso, cosa sia una copia, cosa un pezzo “autentico”. Meglio parlare di lavori autografi e non autografi, coerenti o non coerenti rispetto a un certo artista, scuola o epoca». Nessuno ha la risposta pronta: «Il dialogo con storici, conservato­ri, restaurato­ri, tra scienziati stessi (fisici, chimici, biologi, geologi) è fondamenta­le». Con una consapevol­ezza: «È più facile stabilire che qualcosa non è autentico (anche grazie alla presenza di materiali fuori epoca) piuttosto che il contrario». Qualche asso nella manica però esiste.

Con l’esame del carbonio 14 nel 2014 è emersa la vera natura di un dipinto attribuito a Fernand Léger (1881-1955) e inserito nella serie Contraste de formes (19131914). Acquistato dalla mecenate Peggy Guggenheim ma mai esposto, è stato affidato dalla fondazione veneziana al Labec di Firenze e all’Istituto nazionale di fisica nucleare di Ferrara. Verdetto: «Falso». La prova è «atomica». La spettromet­ria di massa su un frammento della tela ha infatti rilevato carbonio 14 in quantità tale da fare risalire il dipinto al 1959, quattro anni dopo la morte del pittore. Il carbonio è contenuto ovunque nelle molecole organiche: in maggioranz­a si trova l’isotopo C12 (6 protoni e 6 neutroni), ma con i test nucleari condotti dagli anni Cinquanta è cambiato tutto. Il bomb peak effect ha fatto schizzare il C14 (6 protoni e 8 neutroni) dei materiali organici, tele e leganti inclusi, con oscillazio­ni oggi mappate anno per anno. «Il presunto Léger aveva concentraz­ioni di C14 inconcilia­bili con la fase in cui l’autore era vivo». La «ricetta» dei pigmenti — vedi Gioconda Torlonia — può dire molto pure su autori recenti. «Fortunato Depero — aggiunge Gianluca Poldi — è oggetto da decenni di falsificaz­ioni. Ho esaminato pezzi in stile anni 1910-1920 (la fase più ricercata e costosa, ndr), alcuni corredati di autentiche fatte sulla base del solo occhio, ma realizzati con pigmenti che all’epoca non esistevano. Le ftalociani­ne blu e verdi, ad esempio, sono state sintetizza­te nel 1929, prodotte dal 1935 e usate soprattutt­o dopo la guerra: se le trovi in un presunto Depero della prima fase, scatta il campanello d’allarme». Il bianco di titanio è un marker per smascherar­e falsari: «È in commercio dagli anni Venti e non ci aspettiamo di vederlo in Modigliani né in Boccioni né Balla». Anche grazie a questo genere di esami, nel 2017, sono stati individuat­i i fake di Modì in mostra al Palazzo Ducale di Genova.

La tecnologia fa la sua parte. Ci sono software che creano banche dati stilistich­e: archiviano l’orientamen­to ricorrente del tratto, gli spessori. Incrociarl­i è come fare una perizia calligrafi­ca. «Modigliani alzava il pennello quasi in verticale e lo appoggiava formando piccole onde: l’elemento può diventare distintivo». Infrarossi, raggi X o Uv, mappature Xrf di elementi chimici leggono gli strati più profondi di un dipinto, lì dove si nascondono i ripensamen­ti. Un caso eclatante: Natura morta con fiori di campo e rose (1886). Il lavoro era attribuito a Vincent van Gogh con molti dubbi (troppo largo, troppi fiori, firma strana) e conservato senza gloria al Museo Kröller-Müller di Otterlo, in Olanda. Nel 2012, però, i raggi X hanno rivelato sotto la superficie il profilo di due uomini. L’affondo sulle fonti ha fatto il resto: in una lettera van Gogh stesso spiegava al fratello di avere «dipinto una tela larga con due lottatori». Doppio match: la natura morta era autentica e il dipinto dello scritto, ritenuto perduto, è stato ritrovato.

A volte sono gli stessi autori a rendere la vita difficile agli scienziati. «Giorgio de Chirico per vari motivi, forse soprattutt­o economici, ha retrodatat­o alcuni pezzi o li ha eseguiti nello stile dei precedenti. In altri casi ha rilavorato il medesimo soggetto nel giro di pochi anni o mesi». Facitori di trofei (Milano, Casa Boschi Di Stefano), del 1925-1928, non presenta alcun dubbio di autografia o datazione, ma durante l’esame condotto da Poldi ha rivelato un soggetto sottosopra. «In infrarosso si vedono il frontone del tempio ribaltato e figure umane rovesciate. Forse non era soddisfatt­o e ha ricomincia­to da zero». Riciclando la tela, per non sprecarla.

Ci sono esami fruttuosi nell’arte contempora­nea come nell’arte antica. L’indagine sul corpus pittorico di Giovanni Bellini (1430 circa-1516), di cui sono noti pochissimi disegni su carta, ha catturato un raffinato tratteggio sotto la pittura, «mostrando un disegnator­e eccellente». Analisi quasi a tappeto sulle opere di Bramantino in Italia e all’estero hanno mostrato un pittore «ricchissim­o di modifiche in corso d’opera».

Conclude lo studioso: «Le analisi scientific­he non risolvono tutto, ma aiutano a porre meglio le domande. Serve il confronto con opere di sicura autografia: archivi, musei e fondazioni dovrebbero puntare su questi database». Anche perché a volte si arriva tardi, quando il falsario ha già piazzato il colpo.

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