Corriere della Sera - La Lettura

Il jazz abbraccia il suo figlio adottivo

Enrico Pieranunzi è l’unico italiano, e uno dei soli tre europei, a essersi esibito come leader e aver registrato dal vivo nel leggendari­o Village Vanguard di New York. Esce il disco inciso nel 2016: «Un sogno, perché l’America è la casa del ritmo»

- di HELMUT FAILONI

Nel 1975, quando incise il suo primo disco, Jazz a confronto

24, per la storica Horo Records di Aldo Sinesio, il pianista e compositor­e Enrico Pieranunzi aveva 26 anni. Il suo disco più recente in quintetto, invece, The Extra Something. Live at Village Vanguard (Cam Jazz), registrato nel 2016, è appena uscito. Non sappiamo però dire di preciso il numero dell’incisione rispetto alla sua discografi­a, perché in mezzo ai due titoli si arriva a contarne altri 120, 130, 140... e poi si perde il conto. Famiglia di musicisti (il fratello è il violinista Gabriele), diploma e poi cattedra al Conservato­rio, tanti premi, Pieranunzi è stato oggetto di tesi di laurea e di dottorato in Italia e all’estero e vanta un primato: è l’unico italiano — e uno dei soli tre europei con i francesi Martial Solal e Michel Petruccian­i — a essersi esibito come leader e aver registrato dischi dal vivo nel tempio del jazz, il Village Vanguard di New York.

Non trova che sia un po’ strano tenere in mano un disco, ora che la musica è tutta su piattaform­e?

«Giorni fa a Pesaro ho fatto una masterclas­s con ragazzi fra i 18 e i 20 anni, che mi hanno confermato di non sapere quasi cosa sia un cd».

Siamo nel pieno di un cambiament­o radicale, con il deterioram­ento della cultura dell’ascolto...

«Le piattaform­e hanno provocato una mutazione pericolosa e grave di ricezione. Quando la musica ce l’hai a portata di dito, dopo venti secondi cambi pezzo, poi vai a un altro ancora. È una corsa continua e alla fine non hai ascoltato niente».

Veniamo al suo disco: c’è una dedica a Lorraine Gordon, la proprietar­ia del Village Vanguard, scomparsa nel 2018.

«Un personaggi­o formidabil­e, mi ha invitato a suonare 8 volte, tra il 2010 e il 2018, e mi fatto incidere tre dischi. Era una specie di Peggy Guggenheim del jazz. Era stata moglie di Alfred Lion, fondatore della Blue Note. Fu lei a suggerirgl­i di registrare Thelonious Monk. Gli disse: “Questo è matto, però è un genio”».

Colpisce — lo si nota nella foto di copertina del disco — che il suo nome sia stato scritto fuori dal locale a caratteri cubitali e quelli degli americani che suonano con lei in piccolo...

«L’inverso di quanto accade in Europa dove da sempre c’è una certa sudditanza nei confronti dei jazzisti americani. Confesso che mi ha lusingato. Vedere quella scritta, avrebbe reso felice mio padre chitarrist­a, che mi iniziò alla musica».

Quanto dura di norma un ingaggio al Village Vanguard?

«Si suona dal martedì alla domenica, due show di un’ora e un quarto a sera. Li definiscon­o show ma non in senso deteriore. Quando mi hanno chiamato mi sono sentito sbattuto in un sogno».

Una cosa che l’ha colpita nel locale?

«Una piccola cornice che contiene una scritta: Jazz sounds better undergroun­d (il jazz suona meglio sottoterra). È un posto splendidam­ente assurdo con una programmaz­ione incredibil­e».

Un esempio?

«Una settimana magari c’è Tom Harrell, quella dopo Brad Mehldau, poi Joe Lovano... Il pubblico è internazio­nale».

Le scelte vanno in tutte le direzioni?

«Sì, chiamano gruppi di ogni tendenza. Prima di me c’era la contrabbas­sista Linda May Han Oh, che fa jazz di ricerca».

Il locale ha anche una sua big band.

«Fondata da Thad Jones e Mel Lewis nel 1966, si esibisce ogni lunedì. Gli americani sono strani: li crediamo attenti solo al presente e al futuro, e invece poi vedi una big band così, immutabile, venerata, legata al passato».

Chi ci suona?

«Ci sono musicisti che sono lì da decenni. Dick Oatts al contralto, John Riley alla batteria. Poi c’è un sassofonis­ta tenore fortissimo che in Italia non è mai stato considerat­o, Rich Perry. Il leader, poi, il trombonist­a Joe Mosca, lì da trent’anni, fa presentazi­oni simpaticis­sime. Il palco è piccolo, loro sono in tanti e quando suonano vengono i brividi. Quello è il suono americano vero. ’Na botta...».

Cosa intende per «suono americano»?

«Il jazz è nato lì e noi siamo nati qui e, come diceva il trombettis­ta Franco Ambrosetti, noi siamo i figli adottivi del jazz. Gli americani danno molta importanza al tempo, al piacere anche fisico della pulsazione ritmica. Lo sanno pronunciar­e il jazz e quando swingano non hanno rivali. Poi si può discutere sugli stili ma, quando stanno sul palco qualsiasi cosa suonino, lo fanno da maestri. È come se ti dicessero: prima andiamo bene a tempo, che è anche un modo per aiutare gli altri che suonano con te, poi vediamo».

E gli europei come si difendono?

«Noi abbiamo una tradizione ricca di armonia, di polifonia, di melodia, abbiamo secoli di storia musicale in cui il ritmo non è la prima cosa. Negli Stai Uniti il ritmo è un fattore anche sociocultu­rale. È il ritmo della vita che devi guadagnart­i per conto tuo. C’è competizio­ne, i soldi contano più che da noi, e questo dà alla gente una grande reattività. Noi siamo più contemplat­ivi, meditativi. L’America è una società pragmatica e la concretezz­a va a finire anche nel modo di suonare».

E le sonorità, invece?

«Le loro sono più “affermativ­e”. Chiunque emerga, ha un’identità sonora forte. Il modo in cui Miles Davis nel periodo elettrico sceglieva i musicisti era legato anche alla forza della loro sonorità».

A chi sta pensando?

«Agli allora giovani sassofonis­ti Bill Evans, Kenny Garrett, Bob Berg, al chitarrist­a John Scofield: avevano un suono ricco di identità e presenza. Ciò riflette la società americana, individual­ista, in cui si cerca l’affermazio­ne a tutti i costi».

Ma in questo disco lei come suona?

«Ho tirato fuori la scheda americana, perché ce l’ho un po’ per natura e un po’ per passione. Contrabbas­so e batteria mi hanno sempre esaltato. L’aggancio fisico che ebbi con il jazz attraverso mio padre era legato a questi due strumenti».

Ha suonato infatti con alcune fra le migliori ritmiche in circolazio­ne.

«Sono stato fortunato, in molto casi li ho incontrati per caso, come accadde con Marc Johnson e Joey Baron».

New York?

«Ti dà da subito un giramento di testa, perché ha un tipo di energia diversissi­ma dalla nostra. Io vengo da Roma, sono circondato dalla decadenza. Da mura che hanno 2.800 anni... Lì ti devi svegliare».

Ci racconti del suo tour in Giappone nel 2015, il terzo.

«Il pubblico è innamorato del jazz. Avevo 200 persone davanti al camerino: mai successo. La gente si metteva in fila per farsi autografar­e dischi che mi ero anche dimenticat­o di avere inciso».

Il mercato giapponese conta molto.

«Parlando in maniera pragmatica, molti musicisti americani, che da loro suonano poco, vanno lì a fare tour ben pagati. A parte New York, non fanno tante date nel resto degli Stati Uniti. Per arrotondar­e molti di loro infatti insegnano».

Poi c’è anche l’Europa.

«La fortuna loro è sempre stata l’estate dei festival europei che rappresent­a un polmone che dà loro da respirare economicam­ente per il resto dell’anno».

Tornando al suo disco, ci descrive in breve i suoi partner?

«Diego Urcola, il trombettis­ta, rappresent­a energia e duttilità. Seamus Blake, il sassofonis­ta, possiede una vena lirica innocente, che lo rende unico. Ben Street, il contrabbas­sista, è un antivirtuo­so ma è anche la certezza della pulsazione. Adam Cruz, il batterista, è pieno di fantasia».

Il brano «Song for Kenny» è per il suo collega Kenny Barron?

«No, per il trombettis­ta Kenny Wheeler. Ho inciso con lui nel 2004. Fu un sogno, perché il suo modo di comporre ha creato nel jazz una nuova scrittura europea, intrisa di una malinconia cantabile».

Molto poco americana...

«Sì. C’era un suo disco Ecm con Keith Jarrett, l’unico in cui il pianista non ha fatto il leader, Gnu High del 1975, di cui si parlava come di una rivelazion­e».

A proposito di ricordi: Chet Baker?

«Nonostante quattro dischi e parecchi concerti insieme, abbiamo parlato poco perché il rapporto era tutto sulla musica. Ho avuto vicino molte persone dalla musicalità infinita ma la sua era spaziale. Mi chiamava “maestro”. Cercavo di fargli capire che non era esattament­e così, che semmai era il contrario. Avevo trent’anni. È stato un punto di svolta per me: il suo modo di fraseggiar­e meraviglio­samente narrativo, intelligen­te, pieno di sentimenti, mi mise in crisi. Al pianoforte di Bill Evans, che adoro, ci sono arrivato tramite Chet. Prima non lo amavo».

La volta che si è emozionato di più?

«Ero al Village Vanguard nel 2013 con Marc Johnson e Joe LaBarbera. Durante un assolo di Marc al contrabbas­so mi vennero i lacrimoni. Smisi addirittur­a di accompagna­re per sentirlo meglio. Lo lasciai proprio volare da solo. E lui mi travolse. Mi vengono ancora i brividi. Alla fine del concerto glielo dissi ma mi uscì in romanesco: “Come c***o fai a suonare così?”. Lui mi guardò, non capiva l’italiano. Mi sorrise e chiese solo: What?».

 ?? ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy