Corriere della Sera - La Lettura
Il giorno di Alice
Come Dante e James Joyce, anche Alice nel Paese delle meraviglie ha un giorno dedicato a lei. È il 4 luglio di ogni anno, Alice’s Day. Un’occasione, per varie istituzioni soprattutto inglesi, per celebrarla con eventi a tema. La data ricorda il 4 luglio 1862, il «pomeriggio dorato» in cui Lewis Carroll, durante una gita in barca fuori Oxford, inventa per le tre sorelle Liddel la favola «con le avventure di Alice nel sottosuolo». Da lì, nascerà tutto.
Torniamo all’Italia. La seconda metà del XX secolo ha visto lo sviluppo dei movimenti come i focolarini o Comunione e liberazione. In che condizione si trovano adesso?
«Questi movimenti si sono dimostrati in passato molto attivi e creativi. Come agenti di rievangelizzazione, hanno raggiunto settori del cattolicesimo che sembravano inerti e hanno aperto un’interlocuzione con le persone lontane dalla fede. È innegabile tuttavia che ora attraversino un periodo di stanchezza. Bisogna vedere se si tratta di un ciclo evolutivo naturale, per cui c’è una forte espansione sulla spinta del fondatore, poi la seconda generazione tiene il passo, quindi si verifica un fisiologico ridimensionamento. Nella storia è successo così con il monachesimo, con gli ordini mendicanti come quello francescano, con la Compagnia di Gesù nel XVI secolo, con le congregazioni religiose nell’Ottocento. Il XX secolo ha visto la novità dei movimenti: bisogna capire se qualcos’altro sorgerà nel XXI».
Lei scorge qualche avvisaglia?
«Si nota a livello di base una certa vivacità di piccoli gruppi giovanili, non strutturati in campo nazionale o internazionale. È un fenomeno che si percepisce poco ma esiste».
Avremo di nuovo un Papa italiano o il declino del cattolicesimo nel nostro Paese è irreversibile?
«L’Italia resta un punto di riferimento, perché qui abbiamo non solo la Santa Sede, ma il governo centrale degli ordini religiosi e gli organismi centrali dei movimenti. Nelle università pontificie romane si forma la futura classe dirigente ecclesiastica. Tutti questi fattori obbligano i cattolici di tutto il mondo a conoscere il nostro Paese e a confrontarsi con la Chiesa italiana. Quindi il cattolicesimo italiano rimane un termine di confronto. Bisogna vedere se riuscirà a produrre di nuovo contributi importanti».
La crescita del cattolicesimo extraeuropeo può avere conseguenze sul piano dottrinale?
«Sicuramente si manifestano accentuazioni diverse a livello pastorale. In campo dottrinale sarei più cauto: anche gli sviluppi teologici in America Latina sono stati il frutto di elaborazioni avviate in Europa. Una maggiore originalità è riscontrabile nella teologia asiatica».
Che cosa intende per differenziazioni in campo pastorale?
«I modi di gestione ordinaria della Chiesa. Prendiamo la condizione dell’America Latina: vasti territori, numeri considerevoli di fedeli e un clero ridotto. È così da secoli, non c’è la classica parrocchia europea, in cui il rapporto tra sacerdote e laicato è più immediato anche sul piano della vicinanza fisica. Oppure pensiamo alla Chiesa africana: qui un ruolo fondamentale è svolto dai catechisti, che sono molto più presenti dei sacerdoti e rappresentano un anello fondamentale nella vita delle comunità locali. Le diverse distribuzioni geografiche comportano modi differenti di vivere l’esperienza cristiana».
Ci sono anche eredità culturali molto varie.
«Certo. Nelle Chiese africane e asiatiche in particolare la cultura che ha preceduto l’arrivo del cristianesimo impatta ancora sulla stessa fede, mentre in America Latina questo aspetto si è molto diluito nel tempo a causa del meticciato che la caratterizza».
Quanto influisce la forte concorrenza che fanno al cattolicesimo le chiese pentecostali?
«È un tema centrale ma purtroppo trascurato dalla Chiesa cattolica. A mia memoria solo negli anni Ottanta ci fu un concistoro, voluto da Giovanni Paolo II, che toccò il problema. La crescita di questi movimenti è enorme: se noi guardiamo ai numeri dell’America Latina, in alcuni Paesi i loro fedeli toccano il 40 o addirittura il 50 per cento della popolazione. Ma anche in Africa e in Asia hanno grande successo, meno in Europa. L’erosione delle confessioni tradizionali è vistosa. Eppure la questione, che esiste da decenni, non è stata affrontata né a livello di riflessione intellettuale diffusa né nella prassi pastorale».
Qual è la sua opinione sul pontificato di Francesco?
«Nasce come frutto di una spinta al rinnovamento, con la volontà di introdurre alcune riforme nella Chiesa. E in effetti ci sono stati interventi riguardanti la Curia, il Codice di Diritto canonico. E poi Francesco guarda oltre l’Europa, sollecita il contributo di altre chiese al centro romano. Inoltre si è manifestata a livello mediatico una forte simpatia verso il pontefice. Sono caduti alcuni pregiudizi della cultura laica nei riguardi del papato».
Per finire, le chiediamo un giudizio sulle dimissioni di Benedetto XVI. Hanno creato un precedente rilevante?
«Per rinunciare al suo ruolo il Papa deve fornire delle motivazioni, che tuttavia non possono essere contestate. La ragione ultima è sempre il bene della Chiesa, non basta la stanchezza di chi occupa la cattedra di Pietro. Di certo Benedetto XVI ha aperto una nuova fase, ha semplificato la decisione per i suoi successori. E Francesco in alcuni interventi ha accennato alla possibilità di avere più Papi emeriti in contemporanea. Non sappiamo che cosa avverrà ma quella via si è aperta, anche se potrebbe ingenerare problemi di gestione. Benedetto XVI è una persona mite, quindi la convivenza è stata piuttosto lineare. In altri casi potrebbe essere più complessa».