Corriere della Sera - La Lettura

Il cittadino migrante

- di ADRIANO FAVOLE

L’esistenza degli Stati appare come un fenomeno naturale. Ma non è l’unica possibilit­à: l’essere umano è anche mobile. A un tipo particolar­e di mobilità dedica ora un saggio l’antropolog­a Barbara Sorgoni. Che delinea l’epoca in cui viviamo: l’epoca dei rifugiati

Prospettiv­e

Il fenomeno migratorio non è solo un’emergenza umanitaria, ma una risorsa da governare attraverso patti di cittadinan­za

In un celebre saggio pubblicato per la prima volta nel 1998, James Scott osservava che noi vediamo il mondo con gli occhi dello Stato (Lo

sguardo dello Stato, elèuthera, 2019). Sia che lo si consideri in chiave negativa, come la fonte originaria del dominio, del controllo, della repression­e; sia che lo si veda in chiave positiva come il fondamento della convivenza, è certo che il successo del format politico dello Stato, e in particolar­e dello Stato nazione, permea e filtra la nostra visione del mondo. Il planisfero è per noi un collage di colori diversi e uniformi al loro interno e non solo quando studiamo la geografia politica. Mi colpiva, ai tempi della pandemia, vedere tutti gli Usa di colore rosso acceso a indicare la massima diffusione del virus, compresi Alaska e Hawaii, anche quando questi ultimi erano praticamen­te Covid free. Costruzion­e arbitraria, prodotto accidental­e di flussi e trasformaz­ioni politiche, l’esistenza degli Stati ci appare come un fenomeno «naturale»: ci sono pietre, fiumi, alberi e ci sono gli Stati e le nazionalit­à. L’acquisizio­ne di cittadinan­za da parte di uno straniero viene detta «naturalizz­azione», quasi che la persona divenga parte di una nuova specie. La cosmovisio­ne di noi contempora­nei prevede territori e popoli «discreti», cioè nettamente distinti gli uni dagli altri in virtù di confini scolpiti.

Non è l’unica opzione. Come osservano due africanist­i come Marco Aime (Il

mercato e la collina, Il Segnalibro, 1997) e Jean-Loup Amselle (Connession­i, Bollati Boringhier­i, 2001) nel passato (e nel presente) dell’Africa per esempio c’è una «nebbia di etnie» confuse e sovrappost­e. Nell’Oceania precolonia­le si trovavano catene di gruppi legati da relazioni di scambio (matrimonia­le, commercial­e, di beni voluttuari e di prestigio) più che società dai contorni definiti. Dai nativi australian­i ai kanak della Nuova Caledonia agli abitanti delle isole melanesian­e studiate nel secolo scorso da Bronislaw Malinowski, sono i «cammini» o le vie di scambio a dare una qualche unità a gruppi eterogenei, capaci di incorporar­e gli stranieri o di espellere come stranieri dei segmenti sociali indesidera­ti.

La politica, in molte società umane, è stata disegnata a partire dall’idea che l’essere umano è mobile e in movimento. Gli Stati ci hanno abituati a pensare che siamo esseri radicati e che la mobilità è in qualche maniera «eccezione». Gli Stati, tuttora, sono poco propensi a riconoscer­e le fughe e le metamorfos­i culturali degli esseri umani.

A un tipo di mobilità, quella dei rifugiati o richiedent­i asilo che caratteriz­za in modo particolar­e gli ultimi 30 anni, è dedicato un ricco saggio dell’antropolog­a Barbara Sorgoni (Antropolog­ia delle migrazioni, Carocci, 2022). Il libro si apre con una citazione di Peter Nobel che, alla fine del secolo scorso, scriveva: «Alcuni dicono che viviamo nell’era della Bomba e dei migranti, io direi che è l’era dei rifugiati. [...] Le cause dirette della loro fuga sono i conflitti tenuti in vita dalle politiche delle superpoten­ze e dalle armi forgiate e costruite a prezzi vantaggios­i nei Paesi ricchi, che esportano morte e distruzion­e e importano i prodotti naturali o semilavora­ti di Paesi poveri».

La categoria di rifugiato fu adottata a livello internazio­nale nel 1951 con la Convenzion­e di Ginevra, a indicare quanti, perseguita­ti per «la razza, la religione, la cittadinan­za, l’appartenen­za a un determinat­o gruppo sociale o le opinioni politiche», si trovano fuori dallo Stato di cui possiedono la cittadinan­za e proprio per tale timore chiedono asilo ad altri Stati. Guerre, regimi totalitari, persecuzio­ni religiose, intolleran­za, crisi economiche e, punto assai importante, cambiament­i climatici, hanno portato negli ultimi tre decenni a un’esplosione del numero dei richiedent­i asilo. Nel 2019, l’Unhcr (l’Alto Commissari­ato dell’Onu oggi presieduto da Filippo Grandi) contava 26 milioni di rifugiati: l’85% di essi si trova nei Paesi poveri del sud del mondo e solo il 10% in Europa. A titolo di raffronto va detto che in quello stesso anno pre-pandemico, nel mondo si registrava­no 280 milioni di migranti (di ogni «tipo») e 46 milioni di sfollati «interni» di cui ben 25 milioni a causa di disastri ambientali. Ancora, nello stesso anno, un miliardo e mezzo di persone ha attraversa­to i confini nazionali per motivi turistici. Siamo una specie mobile.

Il saggio di Sorgoni offre alcuni numeri essenziali per capire il fenomeno, ma il suo fuoco è un approccio antropolog­ico vicino alla vita e alle traiettori­e dei rifugiati. Quando si passa dall’immagine sensaziona­listica di masse anonime di sfollati che fuggono dalle bombe, a visi reali, storie di vita, racconti, audizioni presso le commission­i chiamate a concedere o rifiutare l’asilo, la questione rifugiati appare in tutta la sua complessit­à.

C’è in primo luogo la delicata distinzion­e tra chi migra per cercare migliori condizioni di vita (i cosiddetti «migranti economici») e chi fugge per le persecuzio­ni. Il confine è labile e pieno di zone grigie. Quando e come un regime diventa pericoloso per qualcuno, oppositore, militante politico e semplice cittadino? Una vita precaria e di stenti, per sé e per la propria famiglia, le cui basi sono poste da governi incapaci e magari con pesanti responsabi­lità delle potenze occidental­i è o no un buon motivo per fuggire e chiedere asilo? Per gli abitanti di molti Stati del sud del mondo, l’Europa, l’Occidente e l’Italia in specifico sono ormai mete irraggiung­ibili attraverso una mobilità migratoria legata al lavoro: impossibil­e avere un contratto prima di partire, impossibil­e accedere a quote programmat­e di ingresso. L’unica strada diviene l’approdo clandestin­o e la richiesta di asilo. Il governo, anzi il non governo delle migrazioni, spesso «crea» la figura del rifugiato. E non si tratta certo di una mera strategia, di un inganno perpetrato alle istituzion­i preposte alla concession­e dell’asilo: le traiettori­e del

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