Corriere della Sera - La Lettura
Coppa Tiziana addio Cioè addio a tutti noi
«Mentre vivevate, crescendo con il cinismo di chi vuol crescere, mentre consumavate e buttavate via, depennando nomi in rubrica, comprando cappotti eleganti, elargendo forti strette di mano, fregandovene e guardando sempre dritto, la Eldorado scompariva. Era nata agli inizi degli anni Cinquanta come Toseroni, nel 1967 era stata acquistata da Unilever, aveva vissuto il boom, i figli dei fiori, il compromesso storico, le Brigate rosse, la Balzerani e si portava addosso tutte queste influenze, tanto che negli anni Ottanta era, fra le marche di gelato confezionato, quella più fantasiosa, intrigante e dall’allure flower power. Tutto il contrario della dorotea Algida, la cui licenza costa di più ai bar però ti danno loro i frighi. Oppure della rampante Motta, colpevole di aver sdoganato nei primi anni Novanta, al posto delle classiche palettine a badiletto, quelle a spatola laterale. Ma anche dell’impersonale Sanson che — coppa Tiziana a parte — al catalogo Eldorado cercava di andargli dietro coi suoi poveri mezzi».
Ho trascritto questo lungo brano, tratto da Confessioni di una coppia scambista al figlio morente di Alessandro Gori (Rizzoli Lizard) per diversi motivi. Non ne posso più della letteratura ombelicale, di quei libri che ti raccontano i cavoli loro come se non ne avessimo già abbastanza dei nostri, di quelle storie in cui ti spiegano la nascita di un figlio (maschile sovraesteso) come se prima non ne fossero mai nati, di quelle confessioni autobiografiche di vite fin troppo normali spacciate come straordinarie. Preferisco chi parla di marche di gelato, anche perché un’estate di tanto tempo fa ho lavorato per la Sanson, per il signor Teofilo Sanson (sponsorizzava una squadra ciclistica) e alla fine della stagione regalai a un mio zio contadino quattro o cinque pacchi avanzati di insegne di latta della Sanson e lui tappezzò il suo pollaio di «Sansonì», «Banita» e «coppa Tiziana» creando un effetto surreale nell’Alta Langa di cui si parlò a lungo (per fortuna, non era ancora patrimonio dell’umanità). E poi l’idea che un gelato si carichi delle influenze della storia mi pare uno spunto interessante.
Non conoscevo Alessandro Gori, il cui nome d’arte è Lo Sgargabonzi, scrittore e autore comico toscano di una certa popolarità online; l’ho conosciuto grazie a Claudio Giunta che lo considera il migliore scrittore comico italiano. Apro una parentesi sul professor Giunta, insigne italianista dell’università di Trento. A lui devo un serio ripensamento su Fantozzi, che non amavo troppo per due motivi: mi ero laureato con una tesi su Ejzenštejn («Ahimè, della Corazzata/ è svaporato il messaggio/ ne resta la celebrata/ efficacia del montaggio») e mi infastidiva il fatto che il ragioniere Ugo, invece di sfidare le avversità, si mettesse a corteggiarle, in una sorta di autocompiacimento, di vittimismo, di drammatizzato masochismo di riporto. Giunta, tra molti interventi, ha anche scritto un libro memorabile su Tommaso Labranca, mettendo in luce come, nella narrativa tradizionale e in altre manifestazioni espressive, indovinasse il grottesco là dove gli altri credevano di vedere il sublime. Alcuni, infine, considerano Giunta il nuovo Edmondo Berselli e lo corteggiano in tal senso. Chiusa parentesi.
Confessioni di una coppia scambista al figlio morente è un libro che ci trascina per i capelli davanti allo specchio delle nostre atroci banalità. Un’esilarante discesa agli inferi del nonsense contemporaneo: il racconto di una domenica bestiale, utilizzando come capitoli i versi della canzone di Fabio Concato; una fantasticheria sul termine «sfigato» raccontando episodi di vita di Cristiano Godano, il frontman del gruppo musicale cuneese Marlene Kuntz; un inedito Indro Montanelli musicista che incontra Richard Branson, fondatore della Virgin; un’occupazione al Liceo classico Francesco Petrarca gestita da studenti col Barbour verde cinabro; una ragazza morta di Aids che fa il giro delle scuole per raccontare ai ragazzini degli anni Ottanta «cosa si prova a morire di Aids e andare per autogestioni a dirlo ai bambini», una Casa Vianello dove i protagonisti sono Sandra Milo e Ciccio Ingrassia.
La scrittura di Gori crea situazioni molto reali e poi, d’improvviso, le ribalta attraverso un’incongruenza, un colpo di coda, un inciampo che viaggia in senso vietato (il famoso controsenso o nonsense). Secondo Claudio Giunta, «le regole-base della comicità di Gori riflettono questa renitenza alla retorica e alla trasformazione degli esseri umani in santini. E le due regole principali sono le seguenti: (1) l’ironia funziona soprattutto quando morde i buoni, i santi laici, gli eroi borghesi, i padri della patria, i cantanti-attori amici dei poveri, i poeti-icone, insomma tutti quelli che sembrerebbero essere al di sopra dell’ironia; (2) è divertente, fa ridere, spalmare uno strato di nonsenso sulle cose tragiche della vita, come l’invecchiamento, la malattia, la morte».
L’eccezionalità della pagina di Gori è di non nascere come eccezione, come effrazione a una regola, ma come una paradossale investigazione sulla realtà, operata con differenti registri verbali. I suoi personaggi camminano su un terreno minato senza saperlo finché la macchina retorica salta in aria, oppure s’inceppa e il granello di sabbia che va a bloccare il punto più delicato del congegno diventa il nuovo soggetto. In realtà, non vorrei sbagliarmi, ma queste erano le tecniche narrative usate da Achille Campanile.
Certo, la realtà di oggi è alimentata anche dal grande apporto dei social (il cretino collettivo è il grande fantasma che ci abita), ma le regole del gioco cambiano di poco. Gori prende di mira il web, esattamente come Campanile, a metà degli anni Cinquanta, prendeva di mira la televisione (che era la Rete del tempo e non mi dispiace l’idea di un Gori nelle vesti di un Campanile maudit). Anche Gori si occupa di televisione. Nel racconto Un fantastico tragico Villaggio immagina una trasmissione (peraltro vera), Un fantastico tragico venerdì (1986), dove Paolo Villaggio prende così alla lettera il titolo del programma e il suo ruolo di conduttore da scaraventare giù dal parapetto una donna che gli chiedeva un autografo. Tragedia? Morte in diretta? Niente, si procede, a Villaggio tutto è permesso. Ma ecco un classico esempio di anticlimax (una composizione di amplificazione e di abbassamento): «Come era prevedibile, Un fantastico tragico venerdì si dimostrò troppo oltre per il palinsesto generalista in cui era collocato. Il programma non ebbe il riscontro di pubblico sperato e tornò un anno dopo, in una versione purgata ed edulcorata, col titolo Che piacere averti qui. La formula originale si era scontrata con i gusti di un pubblico bisognoso di sicurezze, gratificazioni e di presentatori che aprono il programma con un sorriso e un “buonasera”... Nel canale accanto, Enzo Tortora cercava con estrema educazione di far ragionare un pappagallo sulla bicamerale».
Per cogliere la realtà aumentata di oggi serve una scrittura frammentaria, un’estetica del discontinuo; solo così si possono rovesciare le carte in tavola, anzi si può descrivere un mondo alla rovescia. Gori adopera il linguaggio non per creare un mondo altro in contrasto con il mondo dell’abitudine, ma come un mezzo indispensabile per manifestare il suo senso del ludico. È il solo modo di rendere una realtà monotona e grigia suscettibile di improvvise scintille.