Corriere della Sera - La Lettura

Il figlio del Gulag «Oggi è peggio»

- Di ALESSIA RASTELLI

«Ci pensavo da un ventennio. La chiave è stata concentrar­mi su quanto il Kgb fosse la colonna vertebrale di un sistema, su quanto fosse dappertutt­o e allo stesso tempo invisibile. Sorvegliav­a, puniva, ma in modo nascosto. Eppure, anche se sembra incredibil­e, oggi il suo erede, l’Fsb (il Servizio per la sicurezza della Federazion­e russa, ndr ), ne è un’orribile brutta copia, che opera con ancora più malvagità e cattiveria».

Così lo scrittore Iegor Gran, nato a Mosca nel 1964, trasferito­si in Francia con i genitori a otto anni, collaborat­ore di «Charlie Hebdo» dal 2010 al 2018, ricostruis­ce con «la Lettura» la genesi de Gli

uffici competenti, in libreria da martedì 21 per Einaudi e uscito in prima edizione a Parigi nel 2020. Un romanzo che è più di un romanzo perché s’ispira alla storia della famiglia dell’autore. Iegor, che ha assunto il cognome della moglie e scrive in francese, è il figlio di Andrej Sinjavskij (1925-1997), autore e critico russo che tra il 1959 e il 1965, sotto lo pseudonimo di Abram Terc, riuscì a pubblicare all’estero alcune opere che in patria sarebbero state giudicate «antisoviet­iche». Scoperto dopo una lunga indagine del Kgb, fu arrestato, imputato in un processo dalla risonanza internazio­nale e condannato a sette anni di Gulag. Dopo la liberazion­e, lo spostament­o in Francia. E poi, quasi cinquant’anni più tardi, questo romanzo del figlio dall’equilibrio perfetto. Gli uffici competenti è un’opera estremamen­te documentat­a che, attraverso la lente dell’inchiesta su Terc, ricostruis­ce gli anni dell’Urss sotto Nikita Krusciov, dal 1953 al 1964. Ma è al contempo un testo umoristico e avvincente. Non solo. La scelta più indovinata di Gran è narrare non dal punto di vista dei genitori ma degli agenti del Kgb. Il che consente di entrare nella loro mentalità, nella pervasiva e asfissiant­e ossessione per l’Occidente, in un excursus quanto mai utile e attuale in questi mesi di attacco russo all’Ucraina.

Gran, perché tornare a suo padre?

«La sua storia è avventuros­a nel senso nobile del termine. Il Kgb aveva orecchie ovunque e mio padre si aspettava di essere scoperto molto prima. Così io mi sono chiesto: ma questi “uffici competenti” erano in realtà incompeten­ti o c’è stato qualcosa che li ha intralciat­i? La mia risposta è che li ha ostacolati l’epoca».

Quella del cosiddetto «disgelo».

«Sotto Krusciov l’Urss era ancora chiusa dietro una porta blindata in cui però si aprì una fessura che permise alcune contaminaz­ioni con l’Occidente. Ci fu chi riuscì a procurarsi copie di 8½ di Fellini e a proiettarl­e clandestin­amente racimoland­o un po’ di soldi, chi comprava le penne Bic dai turisti stranieri e le rivendeva... Quindi il Kgb dovette occuparsi anche di questo, oltre al fatto che il reclutamen­to di agenti si era diradato».

Poi ci fu l’abilità di suo padre.

«Scelse uno pseudonimo che lo faceva apparire ebreo ma, a causa di un radicato antisemiti­smo, il Kgb non credette subito che un non ebreo avesse potuto usarlo. Mio padre si affidò inoltre a una persona di grande prudenza per far arrivare i testi in Occidente: Hélène Peltier, figlia di un addetto militare all’ambasciata di Francia. L’aveva conosciuta all’Università di Mosca e se n’era innamorato. Fu un episodio legato a lei che iniziò a scuoterlo».

Che cosa accadde?

«Mio padre era comunista. Ma durante la storia con Hélène fu avvicinato da agenti che gli chiesero di ingannarla e carpirne informazio­ni. La coppia preferì lasciarsi. Pubblicare all’estero sotto falso nome sarebbe poi stata per mio padre una scelta obbligata: le sue storie fantastich­e in Urss erano vietate. Era ammesso solo il realismo socialista. E lui, anche se i testi che scriveva non erano strettamen­te politici, voleva raccontare a modo suo».

Perché lei ha cambiato cognome?

«Mi sento russo, ma pure francese, italiano, inglese... Ho scelto Gran perché c’era già un altro Sinjavskij scrittore, ho voluto creare un autore nuovo».

È tornato in Russia negli anni?

«Molte volte, da turista. Ma nel mio ultimo articolo per “Charlie Hebdo” ho criticato il canale tv RT, già Russia Today. La sua versione in francese mi ha subito attaccato. Da allora non vado in Russia».

I funzionari del Kgb, che lei cita con nome e cognome, sono tutti esistiti.

«Sì, sono partito da archivi e documenti d’epoca. Il libro si apre con la perquisizi­one a casa nostra. Suonarono, firmarono davanti a mia madre un elenco di oggetti confiscati. Non la picchiaron­o, avevano ancora una nozione, seppur vaga, di morale. Oggi l’Fsb arriva, sfonda la porta, prende tutto, trucca le prove e ne crea di false. Fa orrore il modo in cui tratta i coraggiosi che scendono in piazza».

C’è continuità nella visione dell’Occidente che lei narra e quella di oggi?

«Da un secolo la Russia ama raccontars­i d’essere circondata da un oceano pieno di squali che vogliono divorarla. C’è stata una pausa nella seconda metà degli anni Ottanta con la perestrojk­a, ma i segnali di malattia c’erano già. Poi nel decennio successivo gli oligarchi si sono alleati con l’Fsb, dando vita a una cleptocraz­ia. Ma oggi le strutture repressive prevalgono pure sugli oligarchi. Nel tempo ha pesato anche la debolezza dell’Occidente».

Quali le sue responsabi­lità?

«Se si fosse mostrato forte, l’Ucraina non sarebbe stata invasa. È stato debole sulla Cecenia, dicendo che era una questione interna, su Georgia e Crimea. Lo dico a Draghi, Scholz, Macron, basta telefonare a Putin. Basta cercare negoziati con chi dopo l’Ucraina non vorrà fermarsi. Serve armare di più gli ucraini, stanno pagando col sangue la nostra libertà. E prepararci a un’eventuale guerra».

Quanto quello che sta accadendo dipende dalla singola volontà di Putin?

«Non è solo, e il sostegno cresce. C’è un 15-20% di russi che gli sono contro, ma magari già perseguita­ti o all’estero. La responsabi­lità del popolo russo è immensa. E non è tutta colpa della propaganda. Esiste, ma spesso è grottesca. Inoltre in Russia è ancora accessibil­e YouTube. Quindi va anche detto che altre argomentaz­ioni sono volontaria­mente ignorate. Si preferisce la finzione alla realtà».

Perché secondo lei?

«Sto scrivendo un libro su questo. Il popolo russo è convinto di essere unico culturalme­nte. E vuole essere forte. Considera lo stato di diritto, la tolleranza, tutto ciò che esula da principi ultraconse­rvatori, come debolezze dell’Occidente. Coltiva anche l’orgoglio d’essere il popolo che ha più sofferto nel Novecento e moralmente più saldo. In realtà vive in un passato manipolato. Il che è anche strano perché l’altra finzione in cui ha creduto, il comunismo, guardava al futuro».

L’Occidente da parte sua avrebbe bisogno di narrazioni vere ma più forti?

«In parte ne ha già, ad esempio sul clima. E ora c’è un nemico comune che è la Russia putiniana. La reazione dell’Occidente mi ha rassicurat­o. Anche se è tardiva, anche se potrebbe essere più dura, si è arrivati subito alle sanzioni, nonostante abbiano pure un effetto boomerang».

Nel 2015 lei ha anche sfiorato la strage di «Charlie Hebdo». Ha ancora fiducia nell’essere umano?

«Fu un caso che non fossi in ufficio. Possono esserci momenti bui nella storia, ma vedo i tesori culturali, scientific­i e morali che l’umanità ha creato e questo mi rende ancora abbastanza ottimista».

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Sopra: Oleg Ozhogin,
Maidens (2021, olio su tela). Nella pagina accanto: Nastasia Nesterova, Ferry
Crossing (2021, olio su tela): alcune delle opere degli artisti dell’Ura (Unione artisti russi) ora esposte alla galleria Tretiakov di Mosca
Le immagini Sopra: Oleg Ozhogin, Maidens (2021, olio su tela). Nella pagina accanto: Nastasia Nesterova, Ferry Crossing (2021, olio su tela): alcune delle opere degli artisti dell’Ura (Unione artisti russi) ora esposte alla galleria Tretiakov di Mosca

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