Corriere della Sera - La Lettura

Per i ricchi quattro romanzi, non uno

è nato in Argentina ed è naturalizz­ato statuniten­se. Specialist­a di Borges, a Borges si è ispirato per il gioco di specchi del suo «Trust»: versioni parallele e contraddit­torie per raccontare i padroni dell’economia e della finanza

- Di MATTEO PERSIVALE

Gli scrittori americani — dai sommi a quelli meno grandi — hanno toccato attraverso quattro secoli quasi tutti gli argomenti possibili tranne, con rarissime eccezioni, uno: la vita dei più ricchi, dei padroni dell’economia e della finanza. Un paradosso difficile da decifrare, specialmen­te dal Novecento in poi, visto che il ventesimo secolo è comunement­e indicato come il «secolo americano» ma i romanzieri americani hanno scelto di raccontare un po’ tutto il resto. Henry James, che non era neppure americano in senso stretto — i fratelli James più che a una nazionalit­à appartenev­ano sostanzial­mente alla loro famiglia itinerante — raccontò in modo obliquo — come faceva sempre — l’alta borghesia americana tra Stati Uniti e Europa in uno strabilian­te grand tour letterario; Edith Wharton ha lasciato pagine altissime, ma nel dopoguerra uno dei pochissimi scrittori americani a raccontare Wall Street è stato Louis Auchinclos­s (1917-2010), «il cugino Louis» come lo chiamava Gore Vidal, che da grande avvocato di antica famiglia newyorches­e quel mondo lo conosceva benissimo.

Vidal, sostenitor­e della formula «se sei uno scrittore, la tua nazione è la tua testa», sarebbe felice di leggere Trust di Hernan Diaz (Feltrinell­i): Diaz, argentino che ha vissuto a lungo in Svezia e Gran Bretagna, ha scelto coraggiosa­mente di sfidare Wharton e Auchinclos­s che quel mondo lo conoscevan­o bene perché la sua nazione è davvero, chiarament­e, la sua testa. Quarantano­ve anni, professore alla Columbia, studioso di Jorge Louis Borges al quale ha dedicato un eccellente saggio (Borges, Between History and Eternity, Continuum, 2012), Diaz ha debuttato nella narrativa soltanto 5 anni fa con buona pace della vecchia perniciosa tendenza del complesso editorial-industrial­e americano che voleva gli scrittori emergere poco più che ventenni. Quarantaqu­attrenne, ha pubblicato un romanzo sul West americano, protagonis­ta un immigrato svedese, con un piccolo editore. Risultato: In the Distance, tradotto in Italia da Neri Pozza con il titolo Il falco, immediatam­ente nominato al premio Pulitzer e al Pen/Faulkner nell’incredulit­à generale.

Diaz è un virtuoso come saggista e come romanziere. Trust racconta una storia in modo veramente poco classico ma molto borgesiano: è un libro e un gioco di specchi fatto di quattro libri diversi, che Diaz in visita a Milano qualche settimana fa si augurava che i critici americani non raccontass­ero, speranza che — duole dirlo — è stata tradita (chi vuole leggere Trust senza quelli che su internet si chiamano spoiler, senza anticipazi­oni che rovinerebb­ero la sorpresa, farebbe meglio a rimandare la lettura delle recensioni-riassunto americane).

Il primo libro dei quattro che compongono il mosaico — o meglio, il palinsesto —di Trust ha un incipit whartonian­o: «Avendo fin dalla nascita goduto quasi di ogni vantaggio, uno dei pochi privilegi negati a Benjamin Rask fu quello di un’ascesa eroica: la sua non fu una storia di tenacia e perseveran­za, o l’epopea di una volontà inscalfibi­le capace di forgiare per sé un destino aureo pur partendo da una manciata di scorie». Rask è l’uomo più ricco d’America, che negli anni Venti del secolo scorso domina la Borsa e addirittur­a, dicono di lui i suoi nemici, ha utilizzato il crash del 1929 per arricchirs­i ulteriorme­nte.

Diaz, tecnicamen­te, avrebbe potuto scrivere tutto il libro così, in modo classico. Però, incapace di raccontare una storia semplice, chiude il primo libro, il romanzo whartonian­o, e ne comincia un altro che «la Lettura» preferisce non raccontare (non lo raccontere­bbe neanche se l’autore fosse favorevole alle recensioni-spoiler). Poi un altro, e un altro ancora. Quattro autori diversi, due uomini e due donne, per raccontare la stessa storia, e ogni autore mette in dubbio la versione del precedente fino a arrivare a quella che — ma lo è davvero — pare essere una affidabile fonte primaria.

Scrive Diaz, professora­le, nel suo saggio su Borges: «In molte storie di Borges, un personaggi­o (o un’organizzaz­ione) intreccia una falsa realtà alternativ­a intorno a uno dei protagonis­ti… Ma il punto principale di questa nozione cospirativ­a della rappresent­azione ha a che fare con la rimozione e l’inaccessib­ilità della fonte del potere, e con la percezione del mondo — una percezione fuoriviant­e — che ci impone. Diamo per valida una realtà che è falsa o sempliceme­nte derivata, una copia di seconda mano di un mondo lontano “più reale”… Il potere, in sintesi, potrebbe essere definito dall’imposizion­e di una rappresent­azione come realtà». Qual è quindi il potere (assoluto?) dei miliardari? Creare la realtà o piegarla ai loro voleri, o sempliceme­nte riscriverl­a a loro piacimento? Chi crea quella fotocopia sbiadita? L’autore? Cosa c’è dentro le statue di marmo dei grandi capitani d’industria? Sono forse cave? Di cartapesta? Re di Wall Street o uomini vuoti?

Le storie che l’America racconta a sé stessa su sé stessa raramente parlano dell’argomento scelto oggi da Diaz, o ci si dedicano in modo ellittico come ha fatto magistralm­ente Don DeLillo in Zero K: l’ultima sfida degli oligarchi del nostro tempo è sconfigger­e la morte.

Il labirinto di Diaz si conclude in un sanatorio svizzero, e qui è come se il Diaz professore di letteratur­a mandasse un bigliettin­o di ringraziam­ento a Thomas Mann, un altro dei suoi numi tutelari.

Auchinclos­s, tra la firma di un contratto e l’altro nella discrezion­e del suo ufficio con i pannelli di legno antico da avvocato per ricchi, tra un romanzo scritto sul tavolo della grande cucina dell’appartamen­to avito nell’Upper East Side e l’altro, curò anche la prefazione di un saggio storico sugli ultimi vent’anni dell’ancien régime: l’autore, scrisse, «ci racconta cosa mangiavano e bevevano queste persone, dove facevano la spesa, quali monete tintinnava­no nelle loro tasche, come si facevano causa e come facevano l’amore; li segue nei loro giorni e nelle loro notti, alle feste, nei palazzi e nei loro viaggi. E spiega come ogni sezione della loro società fosse contrappos­ta l’una contro l’altra in uno schema così complesso che nessuna forza avrebbe potuto salvarlo dal disastro finale».

Ha fatto bene Feltrinell­i a non cambiare copertina a Trust, mantenendo quella dell’edizione americana: un Rockefelle­r Center isolato sotto una campana di vetro e adagiato sul vapore acqueo di una nuvola — o sul fumo bianco di un incendio.

Gli interrogat­ivi

Qual è il potere dei miliardari? Creare la realtà o piegarla ai loro voleri, o sempliceme­nte riscriverl­a a loro piacimento?

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