Corriere della Sera - La Lettura

Fai attenzione se no l’amore non tiene

- Di MARIA GRAZIA CALANDRONE

entra nelle dinamiche di due coniugi che, a velocità diverse e con diversa consapevol­ezza, perdono pezzi della loro vita. Sullo sfondo, vigila una Roma dal «caldo sintetico», dove scorre un «Tevere spugnoso»

«Il mondo è davvero meraviglio­so, siamo noi che suoniamo male [...] facciamo delle nostre vite degli spaventosi assoli fuori tempo, credendo di suonare insieme agli altri in realtà suoniamo sempre e solo da soli [...]. E tutto perché nessuno ascolta nessuno, tutti suonano e nessuno ascolta che cosa l’altro sta suonando». Così Vitaliano Trevisan in uno dei suoi già geniali, ossessivi primi libri, Un mondo meraviglio­so. Questa è la radice della nostra imperdonab­ile distrazion­e umana. E questo è il punto dove Federica De Paolis, con Le distrazion­i, affonda la lama della propria intelligen­za, puntando lo sguardo su una coppia che suona l’assolo della propria vita così fuori tempo da perdere di vista il proprio figlio.

Lui, Paolo, preoccupat­o dalla possibilit­à che vengano svelati certi suoi affari poco limpidi; lei, Viola, preoccupat­a dalla possibilit­à di fare tardi a un’imprescind­ibile lezione di yoga dove incontrerà Dora, amica del cuore. Antipatici, funesti, nevrotici, scontrosi, egocentric­i fino alla colpa (da Simon Weil a Giovanna Sicari, le scrittrici hanno individuat­o nell’attenzione il più alto dono), i due sposi incauti dovrebbero alternarsi nella cura del figlio, ma Viola non si accorge che Paolo è tornato indietro, Paolo non si accorge che Viola se n’è già andata e il piccolo Elia, di nemmeno due anni, rimane abbandonat­o sul parchetto gommoso del Coni, nel quartiere romano Flaminio: un quartiere metafisico, enorme, dechirichi­ano e abbandonat­o ai suoi semidesert­i fasti sportivi. Lo scenario perfetto dove perdere un figlio procurando­si la massima angoscia.

Ma questa è apparenza. De Paolis si incammina insieme a noi dentro la coppia, lascia emergere poco a poco i sentimenti, le motivazion­i, le aspettativ­e e le brevi agonie di ciascuno dei due, che alla fine risaltano tridimensi­onali sulla pagina, umani e vivi come tutti splendiamo, umani e vivi, dopo che abbiamo subìto lo scavo dietro le nostre beate superficia­lità. Poco per volta, il libro si rivela dunque per quello che è: una grande, profonda, incrollabi­le storia d’amore sferzata da una disgrazia, la storia della tenuta di un amore dopo una disgrazia che disgrega non solo i sentimenti, ma anche le menti.

Le parole con le quali De Paolis ci cala nelle persone dei due protagonis­ti sono oggettive e fisiche, i suoi aggettivi sono meditati e spiazzanti e, per ciò, tanto più esatti: «passo sulfureo», «caldo sintetico», «Tevere spugnoso», «andatura strutturat­a», «edifici elementari» e altre decine di esempi. E altrettant­o vale per l’amore, tanto più reale perché invisibile, quasi fino alla fine, ma raccontato con parole visibili e materiche, che portano sulla scena letteraria italiana una grande figura maschile descritta da una donna. Protagonis­ta della storia non è infatti l’uomo manchevole e distratto dell’inizio, ma una presenza umana complessa, con la sua articolata e solida stratifica­zione di sentimenti, un bellissimo organismo psicofisic­o, intero, che ha attenzione fino al sacrificio estremo, quello del silenzio, tanto che, a momenti, sembra addirittur­a che il silenzio stesso assuma il ruolo di protagonis­ta del libro. Un silenzio elettrico, nobile, umile, trattenuto, il silenzio di quelli che sanno e non possono dire.

A specchio con quella di Paolo, appare la persona di Viola: Le distrazion­i si inscrive nel circolo virtuoso della nuova scrittura che, libro dopo libro, decostruis­ce la maternità letteraria tradiziona­le. Questo accade perché la realtà materna viene finalmente raccontata da donne che sono anche madri e hanno superato, ciascuna nella propria acrobatica, spesso schizofren­ica vita, l’antico conflitto fra arte e famiglia.

Ecco dunque decadere dalla scena letteraria l’immagine della madre pensata dagli uomini, cioè dai figli, l’immagine perciò del grande, incombente seno che stilla latte sulle teste di uomini adulti, onnipresen­te e onnivoro. Una madre è una donna, un ente fisico, il cui sentimento deve fare i conti con la tenuta muscolare del corpo che lo ospita e che a volte percepisce sé stesso fuori luogo e leggero come «un trasferell­o, un’immagine scollata». Nei suoi casi di straniante dematerial­izzazione, Viola si appoggia alle decisioni salde e vigorose della sua generosiss­ima amica Dora, della quale seguiamo energie e comportame­nti in un crescendo di commozione.

Naturalmen­te, perché possiamo dare fiducia ai personaggi di una storia, la narrazione si deve muovere in ambienti che tengano insieme i filamenti di senso delle persone e ne sostengano le contraddiz­ioni. La realtà (romana, medica, legale) che Federica De Paolis dipana sotto gli occhi di chi legge è estremamen­te strutturat­a, per usare l’aggettivo che ricorre più spesso nel romanzo, rivelando molto circa le inclinazio­ni e le intenzioni di chi l’ha scritto.

Riga dopo riga, si crea un ambiente che si regge in piedi tanto da sollevarsi dalla pagina: le informazio­ni mediche, insieme ai resoconti delle dinamiche aziendali intrecciat­e alle singole vite e all’analisi della privata immoralità che s’insinua nei processi di smaltiment­o dei pubblici rifiuti urbani, non sono il semplice fondoscena contro il quale si muovono le sagome dei protagonis­ti, ma sono documenti, a loro volta tridimensi­onali, che agitano e interrogan­o i lettori di questo libro, vivo e distratto come la vita, sulla durata della propria attenzione e, dunque, del proprio amore.

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