Corriere della Sera - La Lettura
Fai attenzione se no l’amore non tiene
entra nelle dinamiche di due coniugi che, a velocità diverse e con diversa consapevolezza, perdono pezzi della loro vita. Sullo sfondo, vigila una Roma dal «caldo sintetico», dove scorre un «Tevere spugnoso»
«Il mondo è davvero meraviglioso, siamo noi che suoniamo male [...] facciamo delle nostre vite degli spaventosi assoli fuori tempo, credendo di suonare insieme agli altri in realtà suoniamo sempre e solo da soli [...]. E tutto perché nessuno ascolta nessuno, tutti suonano e nessuno ascolta che cosa l’altro sta suonando». Così Vitaliano Trevisan in uno dei suoi già geniali, ossessivi primi libri, Un mondo meraviglioso. Questa è la radice della nostra imperdonabile distrazione umana. E questo è il punto dove Federica De Paolis, con Le distrazioni, affonda la lama della propria intelligenza, puntando lo sguardo su una coppia che suona l’assolo della propria vita così fuori tempo da perdere di vista il proprio figlio.
Lui, Paolo, preoccupato dalla possibilità che vengano svelati certi suoi affari poco limpidi; lei, Viola, preoccupata dalla possibilità di fare tardi a un’imprescindibile lezione di yoga dove incontrerà Dora, amica del cuore. Antipatici, funesti, nevrotici, scontrosi, egocentrici fino alla colpa (da Simon Weil a Giovanna Sicari, le scrittrici hanno individuato nell’attenzione il più alto dono), i due sposi incauti dovrebbero alternarsi nella cura del figlio, ma Viola non si accorge che Paolo è tornato indietro, Paolo non si accorge che Viola se n’è già andata e il piccolo Elia, di nemmeno due anni, rimane abbandonato sul parchetto gommoso del Coni, nel quartiere romano Flaminio: un quartiere metafisico, enorme, dechirichiano e abbandonato ai suoi semideserti fasti sportivi. Lo scenario perfetto dove perdere un figlio procurandosi la massima angoscia.
Ma questa è apparenza. De Paolis si incammina insieme a noi dentro la coppia, lascia emergere poco a poco i sentimenti, le motivazioni, le aspettative e le brevi agonie di ciascuno dei due, che alla fine risaltano tridimensionali sulla pagina, umani e vivi come tutti splendiamo, umani e vivi, dopo che abbiamo subìto lo scavo dietro le nostre beate superficialità. Poco per volta, il libro si rivela dunque per quello che è: una grande, profonda, incrollabile storia d’amore sferzata da una disgrazia, la storia della tenuta di un amore dopo una disgrazia che disgrega non solo i sentimenti, ma anche le menti.
Le parole con le quali De Paolis ci cala nelle persone dei due protagonisti sono oggettive e fisiche, i suoi aggettivi sono meditati e spiazzanti e, per ciò, tanto più esatti: «passo sulfureo», «caldo sintetico», «Tevere spugnoso», «andatura strutturata», «edifici elementari» e altre decine di esempi. E altrettanto vale per l’amore, tanto più reale perché invisibile, quasi fino alla fine, ma raccontato con parole visibili e materiche, che portano sulla scena letteraria italiana una grande figura maschile descritta da una donna. Protagonista della storia non è infatti l’uomo manchevole e distratto dell’inizio, ma una presenza umana complessa, con la sua articolata e solida stratificazione di sentimenti, un bellissimo organismo psicofisico, intero, che ha attenzione fino al sacrificio estremo, quello del silenzio, tanto che, a momenti, sembra addirittura che il silenzio stesso assuma il ruolo di protagonista del libro. Un silenzio elettrico, nobile, umile, trattenuto, il silenzio di quelli che sanno e non possono dire.
A specchio con quella di Paolo, appare la persona di Viola: Le distrazioni si inscrive nel circolo virtuoso della nuova scrittura che, libro dopo libro, decostruisce la maternità letteraria tradizionale. Questo accade perché la realtà materna viene finalmente raccontata da donne che sono anche madri e hanno superato, ciascuna nella propria acrobatica, spesso schizofrenica vita, l’antico conflitto fra arte e famiglia.
Ecco dunque decadere dalla scena letteraria l’immagine della madre pensata dagli uomini, cioè dai figli, l’immagine perciò del grande, incombente seno che stilla latte sulle teste di uomini adulti, onnipresente e onnivoro. Una madre è una donna, un ente fisico, il cui sentimento deve fare i conti con la tenuta muscolare del corpo che lo ospita e che a volte percepisce sé stesso fuori luogo e leggero come «un trasferello, un’immagine scollata». Nei suoi casi di straniante dematerializzazione, Viola si appoggia alle decisioni salde e vigorose della sua generosissima amica Dora, della quale seguiamo energie e comportamenti in un crescendo di commozione.
Naturalmente, perché possiamo dare fiducia ai personaggi di una storia, la narrazione si deve muovere in ambienti che tengano insieme i filamenti di senso delle persone e ne sostengano le contraddizioni. La realtà (romana, medica, legale) che Federica De Paolis dipana sotto gli occhi di chi legge è estremamente strutturata, per usare l’aggettivo che ricorre più spesso nel romanzo, rivelando molto circa le inclinazioni e le intenzioni di chi l’ha scritto.
Riga dopo riga, si crea un ambiente che si regge in piedi tanto da sollevarsi dalla pagina: le informazioni mediche, insieme ai resoconti delle dinamiche aziendali intrecciate alle singole vite e all’analisi della privata immoralità che s’insinua nei processi di smaltimento dei pubblici rifiuti urbani, non sono il semplice fondoscena contro il quale si muovono le sagome dei protagonisti, ma sono documenti, a loro volta tridimensionali, che agitano e interrogano i lettori di questo libro, vivo e distratto come la vita, sulla durata della propria attenzione e, dunque, del proprio amore.