Corriere della Sera - La Lettura
Fuori dalle antologie ma dentro la vita
Difficile che un appassionato di poesia non si sia trovato, prima o poi, a discutere di qualche esclusione poco giustificabile, o meglio ritenuta tale, operata dai Poeti italiani del Novecento di Pier Vincenzo Mengaldo (Mondadori, 1978). E questo a dire, a scanso d’equivoci, dell’autorevolezza generalmente riconosciuta all’antologia che più d’ogni altra ha contribuito a orientare il canone della nostra poesia novecentesca. C’è chi lamenta l’assenza di questa o quella poetessa (nell’antologia Amelia Rosselli è la sola voce femminile), chi quella di alcuni poeti-narratori, come Giorgio Bassani o Paolo Volponi, chi quella di qualche neoavanguardista, chi soprattutto l’esclusione di poeti d’indubbia levatura, come ad esempio Roberto Roversi, Piero Bigongiari, Fernando Bandini o Bartolo Cattafi.
E proprio di Cattafi, in occasione del centenario della nascita, è stata riproposta in questi giorni l’edizione integrale della raccolta L’osso, l’anima, uscita originariamente nel 1964 e considerata dai conoscitori del poeta siciliano come il vertice della sua poesia (era nato a Barcellona Pozzo di Gotto nel 1922, ma dal secondo dopoguerra ha vissuto anche a Milano, dov’è mancato nel 1979). Nelle prime pagine del suo saggio introduttivo, il curatore Diego Bertelli riflette appunto sulla singolare situazione di questo poeta e della sua poesia.
Cattafi infatti ha avuto riconoscimenti critici numerosi e importanti, nonché estimatori e sostenitori d’eccezione (Vittorio Sereni e Giovanni Raboni, ad esempio), eppure è escluso da tutte le antologie di riferimento della nostra poesia novecentesca o anche solo secondo-novecentesca, tanto da risultare di fatto come un poeta di seconda o terza fila, un poeta in qualche modo sacrificabile.
C’è da chiedersi perché; e Bertelli, forte di una tradizione critica consolidata, ma soprattutto dell’intrinseca vitalità di queste poesie, offre senz’altro buone ragioni per rendere conto della particolare, chiamiamola così, predisposizione al torto subito di Cattafi. Tra queste, ad esempio, la completa estraneità a corporazioni o a schieramenti poetici condivisi.
Cattafi era uno spirito libero, brado, teso sempre a riportare la sua necessità espressiva a un’immediata, strettissima relazione con la vita, al punto che il suo fiero isolamento e la sua indipendenza finiscono per rivelare un tratto quasi autolesionistico. Si pensi soltanto al suo modo di scrivere, che alternava lunghi periodi di assoluto silenzio creativo, ad altri d’incandescente, forsennata produttività (decine, anzi centinaia di poesie scritte una di seguito all’altra). Le liriche, e sono tante, comprese in L’osso, l’anima ,ad esempio, sono state scritte quasi tutte tra il novembre del 1961 e il dicembre dell’anno successivo. Ma ad esse seguiranno poi anni di completa, indifferente lontananza dalla poesia (riprenderà a scrivere, nuovamente di getto, solo all’inizio del decennio seguente). Niente di più lontano da lui, da questo punto di vista, che i calcoli di posizionamento poetico, che la spinta a scrivere per essere sempre e comunque presente sul palcoscenico della nostra poesia.
Ma è soprattutto dal punto di vista espressivo che si può cogliere la differenza e allora anche l’irriducibilità di Cattafi agli orientamenti più condivisi della poesia italiana coeva. A partire dagli anni Cinquanta e poi soprattutto nel corso dei Sessanta, si può dire che tutti i nostri poeti, certo ciascuno a suo modo, si muovano in direzione di una maggiore apertura tematica e linguistica, con un sempre più determinato e riconoscibile, di conseguenza, radicamento storico e geografico della loro poesia. Così i poeti della cosiddetta terza generazione, come anzitutto Attilio Bertolucci, Sereni, Mario Luzi, Giorgio Caproni (il quale ultimo soltanto più tardi scarnificherà all’osso, o all’anima, il proprio dettato poetico); così anche i poeti della quarta, che poi è quella a cui lo stesso Cattafi appartiene: Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto, Giovanni Giudici, per fare solo i nomi più in vista.
Ma Cattafi no. In lui non si dà in quegli anni nessuna apertura inclusiva. Al contrario, ne L’osso, l’anima lascia cadere quel tanto di riferimenti contestuali e determinati che la sua poesia portava con sé, per dare adito invece a un discorso poetico secco e quasi telegrafico, che mira a cogliere la regola, il modello, il senso riposto, spesso e volentieri drammatico, di quanto accade sulla superficie visibile e sensibile della nostra esistenza.
Sereni ha parlato non a caso del tentativo di «ridare, piuttosto che le cose, l’anima delle cose, l’essenza delle cose, lo schema segreto delle cose». Di qui il violento processo di semplificazione – cioè di riduzione appunto all’osso e all’anima – di un’esistenza che pure si avverte vissuta nella sua pienezza, bene e male, estasi e nevrosi insieme. Bertelli ha visto bene, la serialità di cui spesso Cattafi è stato accusato è in realtà l’equivalente di «un meccanismo conoscitivo inceppato, di una coazione a ripetere assecondata sul piano estetico-letterario». E come tale è vera e onestissima, dunque.