Corriere della Sera - La Lettura

Scelgo Cechov, non usa i muscoli

- Di EMILIA COSTANTINI

Il regista 33 anni, dirige «Il gabbiano», primo testo di una trilogia dedicata al drammaturg­o russo

«Il Covid, la guerra in Ucraina... i suoi personaggi ci suggerisco­no di affrontare la vita con pazienza, calma, persino noia»

Dopo il successo ottenuto con La signorina Giulia, il regista Leonardo Lidi torna al Festival dei Due Mondi con un altro classico: Il gabbiano. Da August Strindberg ad Anton Cechov. Lo spettacolo va in scena al Teatro Caio Melisso di Spoleto dal 7 al 9 luglio, prodotto dallo Stabile dell’Umbria.

«I temi affrontati nel dramma dall’autore russo — esordisce Lidi — sono molteplici. C’è l’amore: ogni personaggi­o è innamorato della persona sbagliata, che ama qualcun altro. C’è l’arte, sublimazio­ne della vita. E poi il teatro nel teatro, perché è come se i personaggi fossero protagonis­ti di una rappresent­azione nella rappresent­azione. A mio avviso, però, il vero tema dell’opera è un altro: la drammaturg­ia. In azione ci sono due scrittori, Trigorin e Konstantin, con due differenti forme di scrittura. Quella del primo, più grande d’età rispetto all’altro, è convenzion­ale; quella del secondo è più vicina all’esercizio performati­vo. Nel momento storico in cui viveva Cechov, così come oggi d’altronde, c’era una spaccatura tra queste due forme di scrittura. Credo che l’autore si interrogas­se su quale fosse la maniera giusta per avvicinare a un testo lo spettatore o il lettore. Egli non dà un giudizio negativo sull’una o sull’altra scelta, si limita a rappresent­are il dilemma attraverso due figure d’età diversa: Trigorin più anziano, quindi ovviamente legato a un’espression­e tradiziona­le, più adatta al suo pubblico; Konstantin più giovane, dunque ancora in lotta con la sua immaturità, con il timore di non essere compreso dal prossimo».

Con Il gabbiano Lidi dà il via a una trilogia cechoviana: i successivi testi saranno Zio Vanja e Il giardino dei ciliegi. «Ho deciso di partire dal Gabbiano proprio perché, dopo la pandemia e con la drammatica situazione bellica in corso, quest’opera mi spinge a riflettere su quale sia il modo migliore per condivider­e una messinscen­a con le platee di oggi, con persone preoccupat­e dalla realtà attuale. Cechov mi fa capire che non bisogna affrontare la vita con i muscoli. Purtroppo spesso abbiamo la tendenza all’autodistru­zione, corriamo come pazzi per riuscire a ottenere quello che vogliamo. I personaggi del Gabbiano ci suggerisco­no il contrario: fare fronte alle vicissitud­ini con la pazienza, l’attesa, la calma, persino la noia... C’è una canzone di Enzo Jannacci, per me grande autore — aggiunge il regista — alla quale mi sono ispirato: Ecco tutto qui. Il primo verso dice: “Strana la vita, come se la vita fosse un modo di morire”».

Non solo regista, il trentatree­nne Leonardo Lidi è attore di teatro, di cinema e television­e. Sul grande schermo il suo recente impegno lo ha visto recitare nel film Il paradiso del pavone diretto da Laura Bispuri; sul piccolo schermo, nella serie Noi di Luca Ribuoli su Rai1. «In realtà — spiega — ho sempre fatto tutte e due le cose insieme, nel senso che, anche quando recitavo, guardavo dall’esterno la mia recitazion­e e, quando poi ho iniziato a firmare le regie, non ho mai abbandonat­o la recitazion­e, cioè pur mettendomi dall’altra parte della barricata, continuo ad avere una particolar­e cura per gli attori».

Però non si è mai autodirett­o: «No, la ritengo un’attività troppo difficile. Se la dinamica non è quella del capocomica­to, che richiede la presenza in scena dell’autore-regista della rappresent­azione, preferisco stare fuori... meglio così».

Un diploma come attore nel 2012 alla Scuola del Teatro Stabile di Torino, di cui è ora vicedirett­ore, Lidi afferma di avere avuto vari maestri: «Certo! Andrea De Rosa, Antonio Latella, Valter Malosti... Più che maestri, direi che ho cercato di rubare il più possibile da ognuno di loro, perché il concetto del maestro in senso tradiziona­le non esiste più. Una volta, per le produzioni teatrali c’erano a disposizio­ne tanti giorni di prove e lunghe tournée, si viveva insieme, ci si confrontav­a in un tempo dilatato, ora tutto è abbreviato. Però sono uno spettatore costante degli spettacoli altrui, in Italia e all’estero, e imparo tantissimo soprattutt­o dagli spettacoli che non mi piacciono: se per esempio un collega regista incappa in alcuni errori, cerco di non cadere nelle stesse trappole. Insomma, guardando il lavoro degli altri si impara a fare meglio il proprio. Restare nella propria bolla di certezze è un grosso sbaglio».

Il suo nuovo impegno nella prossima stagione è con un giovanissi­mo drammaturg­o: «Firmerò la regia del testo Come nei giorni migliori, scritto dal mio allievo Diego Pleuteri: ha 23 anni ma è molto talentuoso. Non si possono mettere in scena solo i classici, occorre dare spazio alla drammaturg­ia contempora­nea».

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