Corriere della Sera - La Lettura
Riecco Romaeuropa Il Novecento che abbiamo davanti
Dall’8 settembre al 20 novembre è di nuovo tempo di Romaeuropa Festival. Tra teatro, danza, nuovo circo e musica contemporanea, questa 37ª edizione tiene la barra dritta sulle linee cui il festival si ispira sin dalla fondazione: intercettare a livello internazionale ciò che avviene e si muove nel mondo dello spettacolo, e mettere a contatto la creazione contemporanea, anche la più esigente e la più radicale, con il pubblico di massa. Ne abbiano parlato con il direttore generale e artistico Fabrizio Grifasi.
I numeri: oltre 400 artisti, 80 spettacoli, 74 giorni di programmazione: come si prepara un festival monstre come Romaeuropa?
«Attraverso il dialogo e l’ascolto degli artisti, in viaggio per l’Europa e per il mondo, intessendo sempre nuove reti. Le edizioni di Ref sono progettate con largo anticipo per poter partecipare alle tournée internazionali, ma una parte del programma è aperta all’ideazione last minute per intercettare ciò che accade nei territori nei quali operiamo. La stasi causata dall’emergenza pandemica prima e la crisi internazionale a seguito della guerra in Ucraina oggi, ci spingono sempre più a ritrovare, nella fase di progettazione, un momento di riflessione e ascolto del presente che raccontiamo poi nei nostri programmi. Una vocazione e un impegno nel narrare la complessità che si concretizza sin da maggio nel lavoro di apertura e coinvolgimento del pubblico che ci ha portato, lo scorso anno — il secondo di pandemia — ad abbracciare oltre 56 mila presenze».
Quest’anno avete stretto nuove e illustri alleanze...
«Per la prima volta collaboreremo con il progetto internazionale Dance Reflections by Van Cleef & Arpels per il sostegno alla danza contemporanea, abbiamo avviato un dialogo con Unhcr attraverso raccolte fondi e la partecipazione dei rifugiati agli eventi del festival e rinnovato l’impegno nella transizione ecologica con il progetto Ref Eco-Friendly».
Quali sono i percorsi tematici lungo cui si snoderà questa 37ª edizione?
«È un’edizione caratterizzata dal rapporto con il Novecento: ne sono esempi capisaldi come L’opera da tre soldi di Bertolt Brecht o Einstein on the Beach di Philip Glass e Bob Wilson. Da qui si dirama un dialogo all’interno della proposta coreografica, come nello spettacolo di apertura firmato da Emio Greco e Peter C. Scholten We Want It All, e nel teatro musicale con artisti già riconosciuti come Heiner Goebbels o più giovani come Benjamin Abel Meirhaeghe, ma aperto alle scritture musicali contemporanee con Ólafur Arnalds, Ryoji Ikeda o Bryce Dessner con Katia e Marielle Labèque. Poi gli sguardi sul presente: dalle critiche postcoloniali all’affondo sulle libertà più intime e personali inclusa quella di genere, dall’attenzione alle disuguaglianze sociali alla sostenibilità ambientale».
Gli artisti più significativi?
«Caroline Guiela Nguyen con il suo Fraternité, conte fantastique, una favola distopica sulla cura del dolore e della perdita; Alexander Zeldin con Faith, Hope and Charity e la sua attenzione ai più fragili; Choy Ka Fai e il suo vogueing queer (stile di danza contemporanea nato nei locali gay, ndr) e ipertecnologico; Robyn Orlin e i suoi straordinari danzatori sudafricani; l’incredibile orchestra di strumenti e scene volanti di James Thierrée o l’omaggio al teatro firmato da Marcos Morau con La Veronal; il segno politico del minimalismo coreografico di Jan Martens e dell’hip hop brasiliano di Bruno Beltrão; le “ombre dietro le utopie” di William Kentridge con François Sarhan e Ictus Ensemble; 1984 di Orwell riletto dal compositore estone Mihkel Kerem con l’introduzione dell’informatico e whistleblower Edward Snowden e il dialogo tra danza e minimalismo musicale nella settimana inaugurale del festival con Anne Teresa De Keersmaeker sulle note di Drumming di Steve Reich e con Sasha Waltz su InC di Terry Riley».
Ref, ha detto, «è un festival ancorato nel presente che guarda al futuro». Come se lo immagina, il futuro?
«Complicato, e gli ultimi drammatici anni credo abbiano aumentato questo senso di incertezza. Ho un figlio di sette anni, nel guardarlo crescere provo a immaginare cosa sarà di questo presente tra quindici anni. Nei miei vent’anni ho avuto la possibilità di provare a cambiare e sperimentare tanto. Spero che anche lui abbia quest’idea del futuro come qualcosa che si può costruire e cambiare. Sono proprio le artiste e gli artisti più giovani di Ref che spesso mi emozionano di più e ai quali chiedo di aiutarci a capire cosa sta succedendo».
Il tempo presente e le sue urgenze sono tra i temi esplorati da Ref2022. Più precisamente?
«Un malessere profondo che la globalizzazione selvaggia e le trasformazioni dell’ultimo ventennio hanno causato in una parte delle società occidentali e che si è reso chiaro con lo scoppio della pandemia. Artisti come Radouan Mriziga (nato a Marrakech) e Dorothée Munyaneza (originaria del Ruanda), la compagnia messicana Lagartijas Tiradas al Sol, il libanese Rabih Mroué o la sudafricana Robyn Orlin guardano e ci raccontano la storia attraverso voci e documenti che l’Occidente ha finora ignorato, Jefta van Dinther s’interroga con la svedese Cullberg sul nostro rapporto con la natura,
Direttore generale e artistico del festival dal 2009, Fabrizio Grifasi presenta un’edizione speciale dell’autunno capitolino. Dopo il Covid, con una guerra di nuovo in corso sul continente, con i guasti della globalizzazione che lasciano ferite profonde, come si riparte? «Da due capisaldi: L’opera da tre soldi di Brecht e Einstein on the Beach di Philip Glass e Bob Wilson. E poi con un’attenzione imprescindibile all’altra metà della storia e della geografia: i sud trascurati di tutto il mondo»
Milo Rau impone con sensibilità una riflessione sul fine-vita. È urgente anche il sostegno alle estetiche più radicali nate fuori dalle istituzioni».
La cultura è una priorità politica?
«Sì, quando abbiamo nei posti di responsabilità istituzionale personalità che riescono a difendere politicamente il ruolo della cultura e sostenerne le ragioni. Una criticità del nostro Paese è talvolta il rapporto tra la politica e la creazione contemporanea. Con il rispetto per la doverosa e necessaria priorità costituzionale di tutela e valorizzazione del nostro straordinario patrimonio, siamo un Paese che fa fatica a investire nel futuro, almeno in campo culturale, e spesso si adagia sul magnifico passato».
Tutela delle diversità artistiche e culturali: le politiche del nostro Paese fanno abbastanza?
«Diciamo che, presi dalle emergenze di un sistema culturale duramente colpito negli ultimi due anni, il tema della tutela delle diversità non è in testa alle priorità attuali e forse si potrebbe fare di più, a partire dall’impostazione dei bandi e dei criteri di ammissione ed erogazione dei sostegni pubblici. C’è oggi una giusta attenzione alle tematiche dello sviluppo sostenibile e tecnologico, grazie anche agli obiettivi del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza): andrebbero però integrate con una maggiore sensibilità alle questioni dell’inclusione».
Prima la pandemia, ora la guerra. Questi eventi hanno in qualche modo influenzato il programma?
«Hanno rafforzato la convinzione, già presente in molte scelte che hanno preceduto l’edizione del 2020, che sia necessario sostenere e presentare le voci più originali e indipendenti dalle grandi narrazioni mainstream. Questi accadimenti drammatici ci hanno messo di fronte alla necessità di accogliere e proteggere le fragilità, difendendo la diversità e l’indipendenza delle espressioni artistiche sia dalle omologazioni che dagli autoritarismi, rendendoci ancora più consapevoli che Ref debba essere uno spazio di libertà e di confronto internazionale».
Qual è la presenza femminile a Ref?
«Sono femminili le curatele di tutte le sezioni in cui è articolata la parte del programma che investiga e accoglie nuove generazioni di interpreti e di pubblico: Maura Teofili per Anni Luce, Stefania Lo Giudice per Kids & Family, Francesca Manica per Dancing Days, Federica Patti per Digitalive, Giulia Di Giovanni, con Matteo Antonaci, per LineUp!. Poi una storica presenza maggioritaria nello staff a partire dai ruoli principali: la direzione dal 1986 al 2009 e attualmente l’amministrazione, l’organizzazione, la produzione artistica, le relazioni istituzionali, il marketing. All’interno del programma ospitiamo artiste che hanno segnato la storia di Ref come De Keersmaeker e Waltz e nuove proposte come Maud Le Pladec, Robyn Orlin, Giulia Odetto e Paola Di Mitri, le protagoniste della sezione musicale LineUp! (LaHasna, Nava, Joan Thiele, Lndfk, Elasi), le giovanissime coreografe e interpreti Soa Ratsifandrihana e Stefania Tansini, le compositrici Paola Prestini e Hanna Hartman, e ancora Guiela Nguien, Munyaneza, le sorelle Labèque, Martina Badiluzzi e Monica Piseddu, le sperimentatrici dell’Intelligenza artificiale nel campo musicale Sofia Crespo e Libby Haney e tante ancora. Infine, il pubblico, in maggioranza femminile».
Nella storia più recente di Ref, quale momento rimane più significativo?
«Avere mantenuto Ref nel 2020, il primo anno della pandemia, impostando una terza versione del programma a luglio e spostando la prima parte della programmazione di danza contemporanea sull’enorme palco rock nella Cavea del Parco della Musica, per distanziare gli interpreti secondo la normativa e avere almeno mille persone di pubblico a sera nonostante le restrizioni. In accordo con Guido Fabiani, presidente della Fondazione, abbiamo mantenuto la durata su più mesi e la struttura del nostro modello in più spazi, con artiste e artisti internazionali increduli di potersi esibire di nuovo, il pubblico presente e tutto lo staff confermato e mantenuto anche quando a fine ottobre hanno chiuso i teatri, senza fare ricorso alla cassa integrazione».
Lo spettacolo che avrebbe voluto ma a cui ha dovuto rinunciare.
«In realtà ce ne sono parecchi. Rinunce dovute a problematiche tecniche dei nostri palcoscenici, talvolta poco attrezzati per i formati e le dimensioni spettacolari contemporanee, se si escludono quelli dei teatri dell’opera, che però, almeno per noi, sono inaccessibili. Appena prima della pandemia, ho lavorato molto, purtroppo senza successo, per portare a Ref l’Orlando, con la regia di Katie Mitchell, una straordinaria e intelligente macchina teatrale con gli impressionanti interpreti della Schaubühne di Berlino e, più recentemente, Le Passè di Julien Gosselin da Leonid Andreev, che pure avevo invitato per la prima volta in Italia nel 2017 con Les particules élémentaires di Michel Houellebecq e del quale avevo poi visto le altre incredibili produzioni: formati fuori misura per le esigenze tecniche e anche per le durate, ciascuna di oltre dieci ore».
Dopo 40 anni di assenza riporta a Roma i Berliner Ensemble con «L’opera da tre soldi».
«È una grande gioia, ritorna dopo tanto tempo la compagnia forse più emblematica per la storia della scena europea con un’opera che ha trasformato il teatro musicale del Novecento. A firmare il nuovo allestimento è Barrie Kosky, tra i registi d’opera più importanti al mondo, che ne ha esaltato la ricchezza musicale».