Corriere della Sera - La Lettura
BELLINI SÌ CHE SAPEVA COME FARE DRAMMI
La melodia «ricevuta senza nemmeno far la fatica di chiederla», come diceva Stravinskij; il «canto puro» del «lirico puro» come lo definì Pizzetti; il compositore «povero nell’istromentazione ma ricco di sentimento», parole di Verdi; e basta così, per carità, i cliché nei secoli affastellati su Vincenzo Bellini (18011835; qui sopra) quasi si dissolvono nell’indagine che Fabrizio Della Seta restituisce nel volume Bellini (Il Saggiatore, pp. 454, € 37). Che, al di là del lirismo, punta a rilevare la sapienza drammaturgica del grande operista: Bellini «autore di teatro». Da un racconto biografico di «antica» solidità, Della Seta fa così affiorare un’analisi delle opere più strutturale e scenica che strettamente musicale. Nei Puritani, ad esempio, ci mostra come «le invenzioni melodiche non sono gemme isolate, bensì pilastri di edifici formali d’impianto monumentale». Sottolinea l’importanza drammatica di un brano come Son vergin vezzosa, non semplice «sfoggio di virtuosismo» ma ritratto «della fragilità emotiva di Elvira» e stacco fondamentale per interrompere sulla scena la fuga di Enrichetta.
Prendiamo Norma: nella preghiera Casta diva, Bellini riformula la regolarità di metro e accenti dei primi quattro ottonari con una frammentazione in «sette frasi di varia lunghezza, in una successione del tutto imprevedibile». Tratteggiando i «gesti orchestrali» che all’avvio del II Atto «regolano quelli dell’azione scenica», l’autore rinvia al motivo citato da Chopin nello Studio op. 25 n.7; e bacchetta i registi che, contro le indicazioni di Bellini, fanno succedere cose varie su una scena che dovrebbe restare vuota, presi da un horror vacui oggi ahinoi molto di moda.