Corriere della Sera - La Lettura
Onda nera jugoslava Il cinema che c’era e poi non ci sarà più
Il secondo dopoguerra assiste alla costruzione di un’architettura statuale che durerà alcuni decenni e riunirà popoli e amministrazioni distinte. Anche le produzioni cinematografiche saranno distinte, ma gli intrecci tali da immaginare un corpo unico. Che mesola neorealismo, Nouvelle Vague, suggestione est-europee. Una rassegna al festival di Bologna
La storia del cinema di uno Stato che poi non sarà più un unico Stato. Siamo nella Jugoslavia del Secondo dopoguerra, quando il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, nato nel 1918, è diventato (dal 1945) la Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia (dal 1963 Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia) guidata dal maresciallo Tito fino alla sua morte, nel 1980. Dopo la rottura con Mosca del 1948, la Jugoslavia sviluppa un suo socialismo nazionale basato sul mercato che — spiegano David Bordwell e Kristin Thompson nella loro Storia del cinema. Un’introduzione (a cura di Davide Bruni e Elena Mosconi, McGraw Hill, 2010) — «prevedeva una discreta libertà anche in ambito cinematografico». Ognuna delle 6 repubbliche che la costituiscono (Serbia, Croazia, Slovenia, Macedonia, Montenegro, Bosnia-Erzegovina) sviluppa una propria produzione. Ma tanti sono gli intrecci (di idee, maestranze, location) da permettere di guardare al cinema jugoslavo come un corpo unico, con varie costellazioni.
Negli anni Cinquanta e Sessanta il cinema jugoslavo cresce. A riportare a quel periodo è il festival Il Cinema Ritrovato promosso dalla Cineteca di Bologna. Nel vasto programma della 36ª edizione (25 giugno-3 luglio), il festival ospita la rassegna «Dite la verità!». Uno sguardo sul cinema jugoslavo (curata da Mina Rodovic). «Dite la verità!», un monito che risuona in molti film del periodo: dal cinema classico del dopoguerra fino al Novi Film jugoslavo, che dagli anni Sessanta travolge con nuovi autori e innovazioni formali. L’«onda nera» (Crni Val), «la più pessimistica delle nouvelle vagues europee», come l’ha definita Sergio Grmek Germani nel saggio per la Storia del cinema mondiale curata da Gian Piero Brunetta (nel volume L’Europa e le cinematografie nazionali, Einaudi, 2000). Un’onda vitale che prende spunti da neorealismo, Nouvelle Vague francese, dalla tendenze dell’Est europeo per riformare il linguaggio, infrangere tabù, mostrare il lato oscuro della psiche, criticare la politica dello Stato socialista. Ma si dovrà scontrare con forti critiche e con la censura. Dal 1972 il cinema jugoslavo inizierà a indebolirsi, a frammentarsi prima della dissoluzione della Jugoslavia (nel 1991).
La rassegna bolognese (11 titoli) ricerca le radici dell’«onda nera». Il viaggio parte dal 1954, con Tri zgodbe di France Kosmac, Jane Kavcic e Igor Pretnar (produzione slovena). Tre storie dall’impianto classico legate all’immagine del fiume, che colpirono il futuro innovatore Dušan Makavejev. Il cinema jugoslavo rilegge la storia recente con lenti personali. Lo fa il croato Branko Bauer (1921-2002) con Ne okreci se, sine (1956): un partigiano fugge da un treno diretto a un lager e scopre che il figlio è stato indottrinato all’ideologia fascista. Un film che «pone la questione della responsabilità individuale sotto un regime totalitario», spiega il curatore Mina Radovic nel catalogo (Edizioni Cineteca di Bologna, pp. 388, € 25).
Si concentra sulle tensioni psicologiche il primo film di un regista jugoslavo nominato agli Oscar: Nono cerchio (Deveti krug) di France Štiglic (1919-1993), presentato a Cannes nel 1960. Ivo prende coscienza della realtà e dell’amore per la moglie ebrea Ruth, sposata per convenienza, solo quando lei viene deportata: e mentre il suo mondo crolla anche le immagini si fanno allucinate. Produzione croata, regista sloveno, attori croati e serbi, il film affronta l’Olocausto mostrando in modo diretto i campi di concentramento (altra prima volta).
Mostra influenze francesi Ples v dežju (1960) dello sloveno Boštjan Hladnik (1929-2006), che a Parigi era stato assistente di Chabrol. In patria ritrova un’atmosfera cupa e firma un «melodramma nero». I cortometraggi sono una presenza variegata nel cinema jugoslavo: Bunt na kuklite (1957, 19’) è un giocoso racconto di critica alla guerra del macedone Dimitrie Osmanli (1927-2006). Un bambino che gioca con un carrarmato fa a pezzi la bambola di una bambina. Di notte viene tormentato da un sogno surreale: le bambole si ribellano contro la sua cattiveria e al risveglio ritrova la gentilezza. In dodici minuti, nel documentario Pioniri Maleni, Želimir Žilnik (Niš, Serbia, 1942; Orso d’oro a Berlino nel 1969 con I primi lavori) dà invece voce ai bambini emarginati. Si arriva quindi agli autori di riferimento dell’«onda nera»: lo sloveno Aleksandar Petrovic (Parigi, 1929-1994) e il serbo Dušan Makavejev (1932-2019). Di Petrovic a Bologna sarà mostrato Tri (Tre, 1965): tre storie, interpretate dal celebre Velimir «Bata» Živojinovic, che prima, durante e dopo la guerra affronta la morte come testimone, poi come vittima e infine come aguzzino. Nomination all’Oscar, che arriverà anche per Ho incontrato anche zingari felici (1967), ritratto realista della minoranza oppressa. Di Makavejev si vedrà l’esordio Covek nije tica (L’uomo non è un uccello, 1965); storia d’amore in un paesaggio industriale narrata con l’aspro umorismo che caratterizza i suoi film e lo porterà con W.R. - Misterije organizma (1971), sul teorico della sessualità Wilhelm Reich, ad essere «persona non grata» in Jugoslavia. La rassegna si ferma al 1969 con Zaseda. Nel film del serbo Živojin Pavlovic (1933-1998) «si incontrano tutte le caratteristiche del cinema jugoslavo», suggerisce Radovic: «Coscienza politica, profondità esistenziale, interesse verso emarginati e diseredati, uso eclettico e poetico del linguaggio cinematografico». La storia del giovane Ive che, affascinato dagli ideali comunisti, vuole fare la sua parte nella ricostruzione sociale del dopoguerra, si chiude con una domanda: «E questa la chiamate rivoluzione?».