Corriere della Sera - La Lettura
Il metodo di Federico II per il grano del futuro
L’Iperdurum ha dato il via a una rivoluzione agraria in Puglia: maggiore contenuto proteico, più resistente. «La Lettura» è andata a vedere
Dalla collina solitaria di Castel Fiorentino, dove, ammalato di tifo o per un avvelenamento del sangue, il 13 dicembre 1250 venne a morire Federico II, l’ultimo imperatore svevo, lo sguardo abbraccia tutta la Capitanata: Subappennino dauno, Tavoliere, Gargano. Il colore che l’occhio riesce a cogliere fino all’orizzonte è uno solo, l’oro del grano maturo, pronto per la mietitura. I ruderi di Castel Fiorentino — la torre, la domus, la chiesa e il forno — sono affascinanti, evocativi. E insieme con la stele commemorativa in marmo e le sue iscrizioni in latino tengono viva l’anima del grande svevo. Un’anima però sempre tormentata e travagliata, sia durante i suoi 56 anni di vita, con cinque Papi a manipolarla, avversarla, scomunicarla e a descriverla come l’anima dell’Anticristo, sia oggi, tra queste suggestive rovine abbandonate a sé stesse, alle erbacce, all’incuria totale, all’ignoranza di ministri, governatore, assessori, sindaci, e umiliate dall’assenza di ogni indicazione stradale.
Eppure, Federico II aveva scelto la Puglia come sua regione preferita, la Capitanata come epicentro della sua azione politica e Foggia come capitale del suo regno siciliano. Voltò le spalle a Palermo per scegliere Foggia, dove non c’era nulla, a parte la bellezza di un paesaggio rilassante, e fece costruire uno splendido palazzo reale di cui oggi si possono solo immaginare le fattezze attraverso la lettura delle cronache del tempo. Federico scelse il niente di Foggia perché intuì che lì avrebbe potuto esserci tutto. Di sicuro, tutto ciò che occorreva alla crescita del suo regno e alla sua politica imperiale. A cominciare dal grano. L’oro vero.
Era o no, la Puglia, come e più della Sicilia, il granaio d’Italia fin dai tempi dell’impero romano? E non era Foggia in una posizione geografica ideale, grazie alle vie di comunicazione lungo la dorsale adriatica, ai valichi per la Campania e il Tirreno e ai porti pugliesi affacciati sul Medio Oriente? Sia quello della Terra Santa, sia quello degli infedeli. Poiché a Federico delle crociate non importava un fico secco. Ciò che gli interessava era il sapere, la conoscenza, e quindi lo scambio, culturale e commerciale. Fin dalla prima volta in cui mise piede in Puglia, nel 1221, Federico scelse Foggia perché era più a nord di Palermo e più vicina all’Europa, e perché era prodiga di grano. Lo è anche oggi, ma oggi siamo molto più numerosi, ricorriamo al grano importato dall’estero — da Ucraina, Canada, Argentina, Usa e Russia, il primo esportatore mondiale — che però è prevalentemente grano tenero. Mentre noi, l’Italia, che tra l’altro siamo i primi al mondo per produzione, esportazione e consumo di pasta, abbiamo bisogno di più grano duro, non soltanto per il pane — il noto pane di Altamura o quello non meno pregiato di Laterza e di Matera — ma per tutti quei prodotti da forno che ci contraddistinguono.
Non è tuttavia un’esigenza di maggiore quantità di frumento da produrre in autarchia ma di migliore qualità del grano (proteine, caratteristiche organolettiche) ciò che due anni fa ha convinto i ricercatori delle facoltà di Agraria e di Chimica dell’Università «Aldo Moro» di Bari ad avviare il progetto di un «supergrano», denominato Iperdurum, che ha dato risultati così soddisfacenti da far presagire per la Puglia, dove il grano duro è la coltura più estesa dopo l’ulivo — circa 6 mila ettari, cioè un terzo della superficie totale — una vera «rivoluzione agraria» per gli anni a venire. E qui dobbiamo tornare per un attimo all’imperatore svevo, il quale, come scrive il suo massimo studioso, Wolfgang Stürner, in Federico II e l’apogeo dell’Impero (Salerno editrice, 2009),
La scienza e la terra
Qui il grano duro è la coltura più estesa dopo l’ulivo. Un progetto innovativo sta cambiando qualità e produzione
La cultura e la terra
Il grano rappresenta l’elemento principe di un intimo legame non solo alimentare, ma anche culturale, rituale, religioso
«non si accontentava di osservare la natura con grande attenzione, ma eseguiva anche una quantità notevole di esperimenti, di veri e propri interventi sulla natura, programmati e controllati, che in qualche modo preannunciano l’esperimento scientifico in senso moderno».
L’università barese e i suoi partner, tra i quali i 52 coltivatori della cooperativa La Piramide di Torremaggiore, Foggia, e la spin off universitaria Innovative Solutions, in sostanza questo hanno fatto: applicare il «metodo di Federico». E, senza modifiche genetiche, lavorando sulla migliore combinazione possibile tra i terreni coltivati a frumento e la loro concimazione, hanno ottenuto un grano più resistente alle malattie, quindi capace di dare una resa maggiore, e soprattutto di contenuto proteico quasi doppio rispetto ai grani tradizionali. Il che significa che un quintale del «grano di Federico» ne vale due dal punto di vista nutritivo e che un piatto di pasta prodotta con il grano Iperdurum è sufficiente a saziare due persone. I cavatelli al sugo di pomodoro cucinati per noi dalla signora Pina Silvestre nell’azienda Cairelli di Alberona, dove l’anno scorso su cinque ettari di terra è partita la sperimentazione di Iperdurum, ne sono la prova incontrovertibile.
Che cosa voglia dire questo nel primo distretto industriale nazionale per quantità e fatturato di grano molito, qual è Foggia, e per le prime quattro regioni italiane dell’industria della pasta — nell’ordine: Emilia-Romagna, Campania, Lombardia e, appunto, Puglia — è facile da comprendere. La redditività e la qualità della produzione sono essenziali, altrimenti nessun agricoltore si cimenterebbe nell’impresa ma, come ha scritto Nicola Caggiano ne Il romanzo del pane (Gelsorosso edizioni, 2019), c’è un altro aspetto, che non viene mai trascurato anche se raramente viene manifestato, quando si tratta del grano. Questo: «Il grano rappresenta l’elemento principe di un intimo legame non solo alimentare, ma anche culturale, rituale, religioso, tra il tempo antico e quello moderno». Un legame che riguarda l’uomo da millenni, mai scomparso, scritto dentro a ogni singola spiga anche adesso che nei campi si entra con trattori da 300 cavalli e mietitrebbie da 100 tonnellate.
Giuseppe Marino, un agricoltore esperto, figlio di agricoltore e padre di agricoltori, ha fatto ciò che ogni buon medico, giornalista o magistrato dovrebbe fare sempre: andare a vedere. Marino conduce un’azienda di 120 ettari coltivati prevalentemente a cereali, ma non si è accontentato del sentito dire e nemmeno delle relazioni ufficiali dell’università e della cooperativa. Marino si è messo in macchina ed è venuto nell’azienda Cairelli per rendersi conto di persona se questo «intimo legame» fosse presente anche nella novità che sta seducendo gli agricoltori del Tavoliere (e che, alla fine, ha sedotto anche lui). Dopo aver osservato e percorso in lungo e in largo i 5 ettari di «supergrano», sbriciolando e setacciando spighe con la mano, Marino non nasconde di voler destinare già con la prossima semina una parte consistente delle proprie terre alla coltivazione dell’Iperdurum, che così si affiancherebbe e poi potrebbe sostituire il Triticum durum, il grano che per duemila anni non ha mai tradito gli agricoltori. E del quale lo stesso Federico II — rieccolo — fu regolatore ed esportatore: i mercanti infatti potevano acquistare e rivendere grano sul libero mercato solo dopo che la corona avesse venduto direttamente il proprio, cioè il grano che aveva raccolto nelle masserie di Stato e stivato nelle «fosse» (la fovea, da cui il nome Foggia, era un silo naturale, uno scavo cilindrico di 6-7 metri di profondità e 4-5 di diametro, rivestito di mattoni di argilla per proteggere i cereali dall’umidità).
Ma Federico era Federico. Uno che nel 1231 emanò addirittura una legge a tutela della purezza dell’aria, che, scrive Stürner, «si può considerare come la prima legge sulla salvaguardia dell’ambiente». La sfida di Iperdurum quindi è modernissima perché è cominciata ottocento anni fa con Federico. Il quale il grano l’aveva nel sangue, non solo nei silos.