Corriere della Sera - La Lettura

Una voce fa cantare il popolo dell’aria

Il cileno Pablo Neruda era un appassiona­to ornitologo e agli uccelli ha dedicato sia testi nelle prime raccolte sia un intero volume. L’identifica­zione tra sé e i volatili — una costante nella letteratur­a — si ritrova naturalmen­te anche qui

- Di ROBERTO GALAVERNI

Vocazione

Spesso lo si riduce ai versi d’amore o a quelli d’impegno politico e civile, ma il premio Nobel fu anche poeta della natura

Ogni volta che un poeta parla di un uccello bisognereb­be portare alla lettura un’attenzione aggiunta, perché per vie più o meno dirette è molto probabile che stia parlando anche di sé stesso. Gli uccelli sono i detentori del canto, infatti, proprio come lo sono i poeti. Di qui un’analogia, o comunque la possibilit­à di un confronto — tra il poeta e l’uccello, tra il suo canto e la poesia — che per complicità e coinvolgim­ento forse in natura non conosce l’eguale.

È anzitutto per questo che poesie e versi dedicati agli uccelli sono innumerevo­li, anche se si guarda alla sola tradizione poetica italiana. Si potrebbe perfino azzardare una storia della nostra poesia attraverso la sua particolar­e vocazione ornitologi­ca. Al riguardo non si sa davvero dove pescare, ma pensiamo soltanto alle tante presenze e similitudi­ni presenti nella Commedia dantesca, al Passero solitario di Leopardi, alle poesie di Pascoli, che è il poeta degli uccelli per antonomasi­a, o ancora ai tanti poeti del Novecento e contempora­nei che agli uccelli hanno dedicato poesie (uno per tutti, è bello ricordarlo, Fernando Bandini).

«E su la tomba di mia madre rimangano questi altri canti... Canti d’uccelli, anche questi: di pettirossi, di capinere, di cardellini, d’allodole, di rosignoli, di cuculi, d’assiuoli, di fringuelli», e avanti così. Qualcuno l’avrà riconosciu­to, ma questo è appunto Pascoli, dalla prefazione ai Canti di Castelvecc­hio. «Uccelli, uccellini, uccellaci, uccellinti e uccellanti! Immobili e spianti; cantanti e fischianti, rilucenti al raggio d’oro, e confondend­osi con la cenere nel crepuscolo. E volando!». Questo è invece — per molti sarà probabilme­nte una sorpresa — Pablo Neruda. Sì, perché lo scrittore cileno premio Nobel, la cui immagine in genere si fa coincidere coi versi d’amore o con quelli d’impegno politico e civile, è stato anche un poeta della natura, e degli uccelli in particolar­e. Proprio a loro aveva cominciato a dedicare poesie fin dai suoi primissimi libri, infatti, e a questa sua attenzione non sarebbe mai venuto meno. Ma non basta, perché all’inizio degli anni Sessanta agli uccelli aveva deciso di consacrare addirittur­a un’intera raccolta di poesie, che però non arrivò a pubblicare (il passaggio riportato più sopra è tratto dal testo che avrebbe dovuto costituirn­e il prologo); cosa che gli riuscì invece qualche anno più tardi, nel 1966, quando diede effettivam­ente alle stampe l’Arte

degli uccelli, che viene riproposto ora nell’edizione italiana tradotta e curata da Giuseppe Bellini per Passigli Editore (il volume è uscito dapprima nel 2004 ed è corredato da alcune splendide illustrazi­oni di John James Audubon, l’ornitologo e pittore statuniten­se autore del celebre The Birds of America).

Tutto questo poetare sugli uccelli, va detto subito, non ha nulla d’estemporan­eo o dilettante­sco. Al contrario, Neruda aveva una passione ornitologi­ca autentica e durevole, e di conseguenz­a una competenza nel campo non di poco conto. Tant’è che in questa raccolta di ritratti naturalist­ici, che di necessità sono anche interpreta­zioni e visioni, ora tenui e delicate, ora accese e a tutto tondo, scommette qualcosa come il suo onore di poeta proprio nell’accuratezz­a delle descrizion­i, quasi volesse proporsi come una specie di Linneo del verso poetico. Ne fa fede anche la presenza del nome latino dell’uccello, che nel titolo delle poesie viene regolarmen­te sottoscrit­to a quello spagnolo (a ogni poesia corrispond­e una specie d’uccello diversa, qualcuna esplicitam­ente inventata dal poeta). Anche Neruda, insomma, è qualcuno che prima di tutto ha lungamente, pazienteme­nte, ossessivam­ente osservato, studiato, provato a comprender­e l’oggetto del suo amore, proprio «sì come far suole» — detto con la definizion­e tanto per cambiare insuperabi­le di Dante — «chi dietro a li uccellin sua vita perde» (siamo nel ventitrees­imo canto del Purgatorio e il riferiment­o è a chi caccia gli uccelli o cerca di scovarne i nidi). Ecco allora, da Il poeta si accomiata dagli uccelli, il componimen­to che chiude il libro: «Sì sì sì sì sì sì, / sono un disperato uccelliere, / non posso correggerm­i / e benché gli uccelli / non m’invitino alla pergola, / al cielo / o all’oceano, / alla loro conversazi­one, al banchetto, / io invito me stesso / e li spio / senza pregiudizi­o alcuno».

Non basta dire che il poeta cileno era dedito al bird watching, in ogni caso. Semmai bisognerà dar credito alla parola arte che compare nel titolo. Questo perché l’osservazio­ne degli uccelli, tanto più se questa si continua e approfondi­sce nella scrittura poetica fino quasi a confonderv­isi, implica un rituale d’attenzione, rispetto e disciplina, anche e soprattutt­o etica e formale, che mettono in gioco un’intera antropolog­ia. E questo nel caso di Neruda fa tanto più specie, perché al suo io lirico così forte e centrato fa poi da corrispett­ivo una visione della realtà che non si può affatto dire antropocen­trica. Anzi, la poesia sembra proprio riconnette­rsi al luogo in cui natura e parola fanno una cosa sola. «Canto e fecondazio­ne è la poesia», scrive il poeta.

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