Corriere della Sera - La Lettura
Una voce fa cantare il popolo dell’aria
Il cileno Pablo Neruda era un appassionato ornitologo e agli uccelli ha dedicato sia testi nelle prime raccolte sia un intero volume. L’identificazione tra sé e i volatili — una costante nella letteratura — si ritrova naturalmente anche qui
Vocazione
Spesso lo si riduce ai versi d’amore o a quelli d’impegno politico e civile, ma il premio Nobel fu anche poeta della natura
Ogni volta che un poeta parla di un uccello bisognerebbe portare alla lettura un’attenzione aggiunta, perché per vie più o meno dirette è molto probabile che stia parlando anche di sé stesso. Gli uccelli sono i detentori del canto, infatti, proprio come lo sono i poeti. Di qui un’analogia, o comunque la possibilità di un confronto — tra il poeta e l’uccello, tra il suo canto e la poesia — che per complicità e coinvolgimento forse in natura non conosce l’eguale.
È anzitutto per questo che poesie e versi dedicati agli uccelli sono innumerevoli, anche se si guarda alla sola tradizione poetica italiana. Si potrebbe perfino azzardare una storia della nostra poesia attraverso la sua particolare vocazione ornitologica. Al riguardo non si sa davvero dove pescare, ma pensiamo soltanto alle tante presenze e similitudini presenti nella Commedia dantesca, al Passero solitario di Leopardi, alle poesie di Pascoli, che è il poeta degli uccelli per antonomasia, o ancora ai tanti poeti del Novecento e contemporanei che agli uccelli hanno dedicato poesie (uno per tutti, è bello ricordarlo, Fernando Bandini).
«E su la tomba di mia madre rimangano questi altri canti... Canti d’uccelli, anche questi: di pettirossi, di capinere, di cardellini, d’allodole, di rosignoli, di cuculi, d’assiuoli, di fringuelli», e avanti così. Qualcuno l’avrà riconosciuto, ma questo è appunto Pascoli, dalla prefazione ai Canti di Castelvecchio. «Uccelli, uccellini, uccellaci, uccellinti e uccellanti! Immobili e spianti; cantanti e fischianti, rilucenti al raggio d’oro, e confondendosi con la cenere nel crepuscolo. E volando!». Questo è invece — per molti sarà probabilmente una sorpresa — Pablo Neruda. Sì, perché lo scrittore cileno premio Nobel, la cui immagine in genere si fa coincidere coi versi d’amore o con quelli d’impegno politico e civile, è stato anche un poeta della natura, e degli uccelli in particolare. Proprio a loro aveva cominciato a dedicare poesie fin dai suoi primissimi libri, infatti, e a questa sua attenzione non sarebbe mai venuto meno. Ma non basta, perché all’inizio degli anni Sessanta agli uccelli aveva deciso di consacrare addirittura un’intera raccolta di poesie, che però non arrivò a pubblicare (il passaggio riportato più sopra è tratto dal testo che avrebbe dovuto costituirne il prologo); cosa che gli riuscì invece qualche anno più tardi, nel 1966, quando diede effettivamente alle stampe l’Arte
degli uccelli, che viene riproposto ora nell’edizione italiana tradotta e curata da Giuseppe Bellini per Passigli Editore (il volume è uscito dapprima nel 2004 ed è corredato da alcune splendide illustrazioni di John James Audubon, l’ornitologo e pittore statunitense autore del celebre The Birds of America).
Tutto questo poetare sugli uccelli, va detto subito, non ha nulla d’estemporaneo o dilettantesco. Al contrario, Neruda aveva una passione ornitologica autentica e durevole, e di conseguenza una competenza nel campo non di poco conto. Tant’è che in questa raccolta di ritratti naturalistici, che di necessità sono anche interpretazioni e visioni, ora tenui e delicate, ora accese e a tutto tondo, scommette qualcosa come il suo onore di poeta proprio nell’accuratezza delle descrizioni, quasi volesse proporsi come una specie di Linneo del verso poetico. Ne fa fede anche la presenza del nome latino dell’uccello, che nel titolo delle poesie viene regolarmente sottoscritto a quello spagnolo (a ogni poesia corrisponde una specie d’uccello diversa, qualcuna esplicitamente inventata dal poeta). Anche Neruda, insomma, è qualcuno che prima di tutto ha lungamente, pazientemente, ossessivamente osservato, studiato, provato a comprendere l’oggetto del suo amore, proprio «sì come far suole» — detto con la definizione tanto per cambiare insuperabile di Dante — «chi dietro a li uccellin sua vita perde» (siamo nel ventitreesimo canto del Purgatorio e il riferimento è a chi caccia gli uccelli o cerca di scovarne i nidi). Ecco allora, da Il poeta si accomiata dagli uccelli, il componimento che chiude il libro: «Sì sì sì sì sì sì, / sono un disperato uccelliere, / non posso correggermi / e benché gli uccelli / non m’invitino alla pergola, / al cielo / o all’oceano, / alla loro conversazione, al banchetto, / io invito me stesso / e li spio / senza pregiudizio alcuno».
Non basta dire che il poeta cileno era dedito al bird watching, in ogni caso. Semmai bisognerà dar credito alla parola arte che compare nel titolo. Questo perché l’osservazione degli uccelli, tanto più se questa si continua e approfondisce nella scrittura poetica fino quasi a confondervisi, implica un rituale d’attenzione, rispetto e disciplina, anche e soprattutto etica e formale, che mettono in gioco un’intera antropologia. E questo nel caso di Neruda fa tanto più specie, perché al suo io lirico così forte e centrato fa poi da corrispettivo una visione della realtà che non si può affatto dire antropocentrica. Anzi, la poesia sembra proprio riconnettersi al luogo in cui natura e parola fanno una cosa sola. «Canto e fecondazione è la poesia», scrive il poeta.