Corriere della Sera - La Lettura
Scene di lotta di classe in un Medioevo di oggi
L’ambizioso esordio di Matteo Melchiorre colloca in una zona di montagna tutt’altro che idilliaca il confronto fra un nobile rampollo e un tignoso allevatore. L’epopea di un lungo duello
Che cos’è la nobiltà? Una questione di sangue, di indole o di aria? E rispondere «di sangue» non implicherebbe automaticamente la supremazia del passato su ogni altro tempo? Non significherebbe, in fondo, che è la vita di chi ci precede a stabilire le tappe della nostra, e che non siamo padroni di niente? Il Duca, protagonista dell’omonimo romanzo d’esordio di Matteo Melchiorre, è incatenato a queste domande. Vive un’esistenza da cercatore di sinonimi e nuove attribuzioni di senso per le cose in cui crede, mentre si aggira inquieto dentro un presente in cui essere sé stesso, e cioè un «frutto dell’antico ordine del sopra e del sotto», somiglia all’essere un fantasma. «Laddove va il mondo», si ripete «io, per un motivo o per un altro, non ci sono».
A distrarlo, la gestione dei terreni e della vecchia villa a Vallorgàna, borgo di montagna che il Duca percorre studiando, ragionando, osservando; incarnando, cioè, l’eredità della sua nobile stirpe, i Cimamonte, di cui è l’ultimo discendente. Anche se «Duca», a essere precisi, è solo un nomignolo: il titolo giusto sarebbe quello di conte, e il fatto che nessuno, intorno a lui, colga la differenza — «Cosa cambia? Duca, conte, barone...» — gli ricorda che a renderlo speciale, diverso, elevato, è «una parola senza consistenza, alla quale è rimasto aggrappato con le unghie un passato morto». Ma al ritorno delle cose morte, specie se inconsistenti, è indifferente soltanto chi dei fantasmi non ha paura. Così, a Vallorgàna — «dove il peso del mondo si immaginerebbe che sia lieve» — il Duca si imbatte nel suo antagonista designato: Mario Fastréda, un allevatore tignoso e prepotente, temuto da tutti, che durante il taglio del proprio bosco sconfina volutamente nelle terre dei Cimamonte, dando inizio alla faida. E se a guidare Fastréda sono l’odio di classe e il disprezzo nei confronti di chi si arricchisce per dinastia (solo per questo? Sicuri?), il Duca, altrettanto energicamente, rilancia per orgoglio, e per lo sdegno nei confronti della grettezza che quell’uomo gli suggerisce. Da un lato, quindi, fatica contro privilegio; dall’altro, cultura contro ignoranza: una guerra fra retoriche. La comunità di Vallorgàna, intorno, osserva, e prende a volte le parti di uno e a volte (meno) dell’altro, stupita dall’asprezza dei gesti e confusa sulla vera origine della discordia. C’è un segreto? O forse, più semplicemente, l’odio è proprio come la nobiltà, un composto di sangue, indole e aria che si tramanda inevitabilmente, e altrettanto inevitabilmente ci sopravvive? Come agli abitanti di Vallorgàna, anche a chi legge Il Duca può capitare di sentirsi al cospetto di un mistero: cos’è che ci spinge ad avanzare con tanto godimento lungo una storia su due maschi egotici e superbi, archetipi sociali e letterari, che si fanno i dispetti?
A riferirla oralmente, infatti, questa storia potrebbe annoiare: tra tutti i conflitti che esistono al mondo, gli screzi tra confinanti di terreni e le maldicenze di paese non sembrerebbero, al netto dei disagi che pur sanno suscitare, i più indi
cati a reggere il peso di 450 pagine. In mano a Melchiorre, invece, diventano le colonne di un’epopea, le spade affilate di un lungo duello medievale in cui il protagonista, mentre architetta la prossima mossa, si arrovella su temi quali il valore, l’onore e la prodezza, e su come riadattarli a un contesto derisorio e svalutante.
Già: come? È un altro mistero, questo, e fa da rifrazione a quelli principali, sul senso odierno del retaggio del protagonista e sulle ragioni dell’odio del nemico. O su chi sia davvero questo Duca, che pure deve tutto al proprio pedigree: lo scopriamo solo a pagina 250, in poche righe — «giusto l’essenziale» — concentrate sulla morte dei genitori e sulla gestione del loro patrimonio. Nient’altro. L’antieroe di Melchiorre è la famosa «copia di mille riassunti», un uomo ossessionato dalle radici ma privo di una sua origin
story, di una formazione individuale. È la nobiltà che sente scorrere dentro sé a caratterizzarlo, a infondergli quel misto di eleganza, sicurezza e lieve alterigia — ogni scherno gli sembra «un’insolenza intollerabile» — capace di distinguerlo dagli altri abitanti del borgo. E al povero lettore medio, erede di Fantozzi più che di Edmond Dantès, non resta che sgranare gli occhi di fronte a tanto carisma, al punto da sovrapporre l’immagine del Duca che si aggira fiero per Vallorgàna a quella di Clark Kent tra i campi di granturco di Smallville: un nobile tra i contadini è un alieno, e il suo vantaggio ereditario un superpotere. Un superpotere descritto e fatto agire egregiamente. Con parole rare e mai vaghe, e una gestione saggia sia dei tempi che delle sfere d’azione, a formare un intreccio perfetto.
«Rumini sempre. Pensi. Ripensi. Pensi ancora. Ripensi di nuovo. Ma non vedi che notte, invece? Non la senti?», dicono, a un certo punto, al protagonista, sotto un buio vasto e senza luna, impossibile da ignorare. Ecco, come pochi autori suoi contemporanei — Paolo Cognetti, Sandro Campani — e altri di generazioni precedenti — si pensi all’eleganza spregiudicata di Paolo Maurensing, alla storia come argilla per le marionette di Umberto Eco o Michele Mari, ma anche, andando più indietro, alle chiamate all’azione in Joseph Conrad — Melchiorre mostra anziché ruminare, e far ruminare. Lontanissimo dal realismo isterico, Il Duca appartiene a una variante più maestosa e sicura di sé del romanzo borghese: il romanzo nobile. Alla fine, con tanto di colpi di scena, si rivela un giallo. Ma un giallo storiografico, cioè risolto studiando delle carte, da seduti (come lo siamo noi mentre leggiamo: empatia assicurata), e la cui soluzione solleva altre domande: cos’è cambiato nel Novecento, le forme o la sostanza? Le ultime rivoluzioni culturali sono davvero riuscite ad azzerare certe dinamiche di potere o ne hanno solo riassegnato, e rinominato, le parti?
L’autore se lo chiede mentre intreccia leggende locali e storie d’amore, sfuriate sulla retorica della montagna come luogo ameno pieno di virtù e una filosofia sul presente che «muore nello stesso istante in cui nasce», e cioè sull’esistenza di un unico tempo che divora tutti gli altri: il passato. Il Duca, emanazione di questo passato, ne diventa figlio parricida nel momento in cui formula, insieme a chi legge, un pensiero che fa il verso a quello notissimo del Gattopardo: perché qualcosa cambi bisogna osservare il mondo come non fosse mai cambiato; solo così sarà possibile sentirsi esausti, ed emanciparsi dal nostro groviglio di eredità ingombranti e missioni mai veramente assegnateci. Melchiorre ha esordito con un libro formidabile, capace di entusiasmare per eleganza e compiutezza, nonché di far pensare che siano ancora vive o in buona salute, di certo raggiungibili, alcune delle cose perdute e impalpabili per cui, oggi, continuiamo a setacciare i romanzi: la voglia d’avventura, il freddo della montagna e la grandezza da cui non siamo stati lambiti.