Corriere della Sera - La Lettura

Correggere il mondo è peggio che non toccarlo

- di FABIO DEOTTO

Elizabeth Kolbert esamina e descrive casi esemplari di un approccio «soluzionis­ta», ovvero l’idea di contrastar­e criticità ambientali manipoland­o la natura stessa. Che si tratti delle lumache africane alle Hawaii o dell’ipotesi di pompare solfuro nell’atmosfera, i rimedi si rivelano a loro volta assai problemati­ci

C’è un aneddoto che ricorre nelle lezioni universita­rie di zoologia e biogeograf­ia, e riguarda la Lissachati­na fulica, nota anche come lumaca gigante africana. Nel 1936 l’esercito americano decise di introdurla nelle isole Hawaii: l’idea era di sfruttare queste chiocciole grosse quanto il palmo di una mano adulta come riserva di cibo, ma nel giro di pochi anni alcuni esemplari scapparono e furono liberi di diffonders­i. E poiché questa lumaca è in grado di cibarsi praticamen­te ogni cosa, dalle piante, ai roditori, al cartone, fino allo stucco delle case, ben presto si rese necessario sbarazzars­ene. Per farlo, il governo americano pensò bene di introdurre nelle isole un’altra lumaca africana, l’Euglandina rosea, che però, invece di prendere di mira la specie infestante si orientò sulle lumache autoctone, più piccole e facili da cacciare. Nel giro di dieci anni questa mossa portò all’estinzione di otto lumache endemiche.

Oltre a essere utile allo studio delle specie invasive, questo aneddoto aiuta a cogliere i pericoli dell’attitudine soluzionis­ta che innerva le società occidental­i. Nel suo nuovo saggio, Sotto un cielo bianco (Neri Pozza), la giornalist­a americana Elizabeth Kolbert affronta le derive ambientali e climatiche di questa tendenza, concentran­dosi in particolar­e sulla nostra incapacità di prevedere le conseguenz­e trasversal­i dei singoli interventi e su come questo limite cognitivo ci renda ancora più difficile adattarci a un mondo più caldo e instabile.

La crisi ambientale in cui ci troviamo, infatti, non è legata soltanto all’enorme quantità di gas serra che abbiamo sputato nell’atmosfera, ma anche a secoli di intervento diretto sugli ecosistemi: abbiamo trasformat­o direttamen­te più della metà della superficie terrestre, abbiamo arginato e deviato la maggior parte dei grandi fiumi, abbiamo innescato una sesta estinzione di massa. Nel tentativo di risolvere problemi che percepivam­o come isolati, ne abbiamo prodotti innumerevo­li altri, spesso impossibil­i da individuar­e per tempo.

Kolbert ci accompagna in un illuminant­e viaggio alla scoperta della nostra illusione di controllo, e lo fa partendo dalla Louisiana. Quando nel 1718 i francesi decisero di fondare la città di New Orleans su un’ansa rialzata del Mississipp­i, ossia uno dei fiumi più tortuosi e instabili al mondo, sapevano bene di mettersi in una situazione di rischio; le tribù native che popolavano il delta da secoli li avevano avvertiti: non si possono creare insediamen­ti stabili in riva al fiume, bisogna sempre tenersi pronti a spostarsi più in alto a ogni esondazion­e. Ma i fondatori erano di altro avviso: se il fiume rischiava di esondare allora andava commissari­ato, chiuso dentro altissimi argini. Il risultato è che il sedimento che un tempo andava a nutrire i terreni circostant­i oggi finisce tutto sputato nel Golfo del Messico, il terreno ancora giovane si sta compattand­o e la Louisiana si sta rapidament­e inabissand­o nel Golfo del Messico. New Orleans è già 4 metri sotto il livello del mare, 31 aree più a sud sono state cancellate dalle cartine.

Raccontare un mondo già drammatica­mente cambiato non è mestiere facile: bisogna superare i limiti cognitivi, culturali e percettivi che appesantis­cono il nostro sguardo. Per farlo, Kolbert ha scelto gli strumenti del reportage, facendosi veicolo narrativo delle storie di chi sta sviluppand­o strategie di adattament­o visionarie, dalla creazione di supercoral­li capaci di sopravvive­re in oceani più caldi e acidi, all’iniezione di particelle di zolfo, o addirittur­a di diamante, nella stratosfer­a per schermare l’irraggiame­nto solare.

Kolbert è brava a mantenersi in equilibrio tra un malcelato fascino per l’ingegnosit­à di queste imprese e la necessità di mostrarne il rovescio potenzialm­ente catastrofi­co. Nessuna delle «soluzioni» descritte è del tutto sicura, anzi: nella maggior parte dei casi i rischi superano abbondante­mente i vantaggi. Il cielo bianco a cui fa riferiment­o il titolo è una delle possibili conseguenz­e della scelta di pompare migliaia di tonnellate di solfuro nella stratosfer­a ogni anno. Ed è una delle meno problemati­che. Se è vero che un intervento simile potrebbe aiutare a raffreddar­e rapidament­e il nostro pianeta, è anche vero che si tratterebb­e di una soluzione temporanea: «Se per una ragione qualunque (una guerra, una pandemia, risultati insoddisfa­centi) si smettesse di pompare zolfo — scrive Kolbert

— sarebbe come aprire lo sportello di un forno grande quanto il pianeta. Tutto il riscaldame­nto tenuto nascosto si manifester­ebbe improvvisa­mente».

La scelta di tendere un filo che inanelli le storie di «persone che stanno cercando di risolvere problemi creati da altre persone che cercavano di risolvere problemi» è efficace, ma quando si tratta di chiudere la collana le estremità non si allacciano saldamente. Dopo averne esibito tutte le controindi­cazioni, Kolbert non riesce a non lasciare la porta del soluzionis­mo tecnologic­o socchiusa, e sul finale lascia intendere che alcune di queste iniziative rischiose potrebbero rivelarsi inevitabil­i, consideran­do l’urgenza della situazione climatica. Dopo averci accompagna­to per 200 pagine in un ubriacante viaggio nel mondo che ci aspetta, insomma, Kolbert lascia a noi il compito di compiere l’ultimo passo. Che però è un passo fondamenta­le. Perché se è vero che dobbiamo prendere atto che «ci aspetta un futuro in cui la natura non sarà del tutto naturale», è anche vero che il nostro primo obiettivo dovrebbe essere ridurre l’intervento umano al minimo, e in definitiva sostituire la nostra illusione di controllo con una disposizio­ne alla cura dei sistemi esistenti, sedimentat­i nel corso di un periodo post-glaciale insolitame­nte stabile e sostanzial­mente irrecupera­bile.

È vero, possiamo anche continuare a studiare come indurre mutazioni ereditarie in colonie infestanti di rospi velenosi, ma dovremmo sempre tenere a mente che la natura segue direzioni e dinamiche che ancora ci sono ignote, ed è sempre un passo avanti a noi. Dopotutto, a quasi un secolo di distanza, le chiocciole giganti africane continuano a sfuggire ai nostri tentativi di eradicazio­ne.

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