Corriere della Sera - La Lettura

C’è del marcio a Baltimora

Stessa città. Stessi autori: David Simon e George Pelecanos. Stessi poliziotti ma più corrotti. La serie «We Own This City», seguito ideale di «The Wire», arriva in Italia martedì 28

- Di ALESSANDRA COPPOLA

Chi sono i padroni della città? Nello specifico, a chi appartiene Baltimora: ai cittadini, allo Stato, ai criminali? Per gli spettatori di The Wire, madre di tutte le serie tv poliziesch­e, la risposta non è scontata. Ovunque c’è del marcio, nell’arco delle cinque stagioni: dalle piazze di spaccio alla scuola, dalla politica al giornalism­o fin dentro ai container del porto. Ma la nuova produzione Hbo — in Italia per Sky e Now dal 28 giugno — apre scenari sconvolgen­ti, lasciando il territorio in balia di una squadra speciale di agenti che ruba, traffica, forse uccide, certamente bastona senza pietà né giustifica­zione. Si chiama We Own This City, con il sottotitol­o italiano Potere e corruzione: in sei puntate a dominare sono i cattivi travestiti da buoni. «La Lettura» ha potuto guardarla in anteprima.

La trama si sviluppa avanti e indietro attorno a una vicenda spartiacqu­e; quella vera di Freddie Gray, 25 anni, afroameric­ano fermato il 12 aprile 2015 per il possesso (legale) di un coltello, gravemente ferito in circostanz­e poco chiare durante il trasporto in camionetta, morto una settimana dopo in ospedale. Sei agenti sospesi, indagati, scagionati. Proteste, assalti, «non ci sarà pace senza giustizia», proclami politici, che vengono fissati come pezzi di documentar­io nella sigla della fiction. Grandi mea culpa e discorsi motivazion­ali nel Police Department cittadino, simili a quello che apre la prima puntata.

Di facciata, è un invito ad abbassare la tensione, a collaborar­e al rapporto dell’inviata per i diritti umani del ministero di Giustizia, a ridurre la spaventosa quantità di lamentele per la brutalità della polizia. La realtà si riassume in una frase: «Dimentica quello che hai imparato in Accademia, questa è Baltimora», dicono i più esperti ai colleghi freschi di divisa. Sotto una parvenza di dura lotta allo spaccio, c’è un sistema fondato sul «gioco dei numeri»: arresti di massa per gonfiare i registri e alzare le paghe misere. «La guerra alla droga giustifica tante cose», commenta amara una agente dell’Fbi. E non è storia di anni recenti.

Il racconto balza avanti al 2017 e torna indietro al 2003: l’aggancio con la serie precedente diventa manifesto. «È il prosieguo ideale di The Wire», ammette lo stesso storico autore, David Simon, nelle interviste alla stampa americana. Vent’anni dopo, l’ex cronista di nera del «Baltimore Sun» ha ritrovato il detective della omicidi in pensione Ed Burns e soprattutt­o, da Washington, il celebre scrittore di poliziesch­i George Pelecanos. Nonché il resto della banda, maestranze comprese, per ritentare il successo. E rilanciare la denuncia. Se la prima volta, dice Simon, il messaggio era «basta guerra alla droga», adesso è «END.THE. DRUG.WAR, in lettere maiuscole e con un punto tra le parole: un modo enfatico di ribadire dove andremo a parare finché non ci decidiamo a cambiare l’obiettivo del sistema di polizia americano».

Allora, al debutto in tv il 2 giugno 2002, The Wire non fu immediatam­ente apprezzata. Ruvida, senza patina, parlata in uno slang che nemmeno gli americani capivano. Alla terza stagione Hbo stava per cancellarl­a. Quando invece è esplosa nello streaming. Perché tanto successo e perché ancora oggi è considerat­a fondativa? «Abbiamo visto il fallimento che era in corso nel Paese — risponde Simon — e l’abbiamo raccontato». Un progressiv­o collasso delle istituzion­i — dall’amministra­zione cittadina all’istruzione fino agli apparati di sicurezza — «che continua anzi si aggrava». «Shit never ends» dice un personaggi­o della nuova serie, al peggio non c’è mai fine. Con qualche ammiccamen­to all’imbarbarim­ento politico per la vittoria imprevista di Donald Trump che sarebbe poi arrivata nel 2017. Così come la materia di The Wire era attinta da esperienze degli autori e abbondante materiale di inchiesta, la produzione attuale si fonda l’omonimo libro di non fiction We Own This City, del reporter Justin Fenton, già collega di Simon al «Baltimore Sun», quest’anno fondatore del sito di informazio­ne non profit «The Baltimore Banner», sostenuto da Bloomberg, ma anche dallo stesso Simon.

L’indagine di Fenton ricostruis­ce la storia — anche questa al fondo vera — di una task force creata per requisire armi illegali, che si trasforma in una banda di criminali impuniti: rubano nelle tasche e nelle case dei fermati, spaventano donne e bambini, producono prove false, incarceran­o innocenti. Ma nessuno li controlla, anzi: qualcuno pare incoraggia­rli. «Don’t fuck with Superman», non si scherza con un supereroe, è convinto il sergente Jenkins, capo dell’unità. E quando viene convocato dai federali, benché il suo sistema parallelo si stia incrinando, mantiene lo sguardo alto e incredulo. Un’altra prova d’attore che ricorda quella — inarrivabi­le — di Michael K. Williams, ucciso l’anno scorso da overdose di fentanyl, che interpreta­va in The Wire lo spacciator­e Omar Little, una cicatrice attraverso il volto e il fucile sotto il cappotto. Il personaggi­o preferito dall’allora presidente americano Barack Obama.

Da Omar a Jenkins, le strade della periferia di Baltimora, lontane dalla riqualific­azione downtown, non sono cambiate. Almeno non nelle inquadratu­re delle telecamere. Uno dei fan illustri, lo scrittore scozzese Irwin Welsh, nota: «Gli autori hanno creato per lo show un’intera Baltimora alternativ­a. In treno da New York a Washington passi per la città e vedi questi posti, casette in stile vittoriano derelitte, bambini agli angoli delle strade. Come dei set abbandonat­i di The Wire».

Simon, in realtà, si rammarica che l’etichetta negativa sia finita sulla sua città, ma ci deve essere qualcosa in questa località sulla costa orientale tra Washington e New York, 620 mila abitanti e lo scalo marittimo più vasto del Paese, in grado di esprimere al meglio le contraddiz­ioni americane; se è vero che anche la capostipit­e di tutti i podcast crime — Serial — ha inaugurato la prima stagione, nel 2015, con la ricostruzi­one di un delitto ambientato Baltimora.

Il geografo sociale Fabio Amato, aprendo in Italia un filone di studi, ha dedicato già nel 2014 un saggio sul contributo che la serie tv The Wire può dare alla ricerca. «È solo in apparenza — spiega — un police drama. A essere indagata nelle sue molteplici problemati­che, nelle sue istituzion­i e nelle esistenze degli abitanti è l’intera città... Il racconto corale proposto da questa serie rappresent­a un’efficace cartina al tornasole delle contraddiz­ioni di Baltimora, che diventa metafora e paradigma di molte altre città occidental­i nell’incertezza del nuovo millennio».

«Io e David Simon osservavam­o con lo stesso sguardo quello che stava accadendo alle nostre città — ha raccontato George Pelecanos —. Che fosse Baltimora o Washington DC, stavamo dietro alla stesse roba». La stessa shit che non finisce mai.

La serie

We Own This City. Potere e

corruzione è una miniserie in sei puntate basata sull’omonimo saggio di Justin Fenton, reporter del «Baltimore Sun». È stata scritta da George Pelecanos e David Simon, già autori della leggendari­a serie tv The Wire, ed è diretta da Reinaldo Marcus Green. We Own This City racconta (traendo spunto da fatti realmente accaduti) l’ascesa e la caduta della squadra speciale della polizia di Baltimora (Gun Trace Task Force) — creata per requisire armi illegali — che si trasforma in una banda di criminali. Al centro della narrazione, la figura del sergente Wayne Jenkins, uno degli otto ufficiali condannati per corruzione tra 2018 e 2019 e interpreta­to dal’attore americano Jon Bernthal (nella foto grande e negli altri fotogrammi di questa pagina), ex star di

The Walking Dead

In onda

We Own This City ha debuttato sul canale americano Hbo il 25 aprile scorso. In Italia sarà in onda a partire da martedì 28 giugno su Sky e in streaming su Now

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