Corriere della Sera - La Lettura

Il gioco dei Dardenne ragazzini in pigiama

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Esce il 1° luglio per le edizioni del Saggiatore Addosso alle immagini. Viaggio nel nostro cinema, il diario minimo e massimo firmato da Luc Dardenne, il regista belga (1954) che, insieme al fratello Jean-Pierre (1951), forma da 30 anni una delle coppie di autori più autorevoli del cinema europeo, come lo erano i Taviani, come in America i Coen: «i Dardenne», marchio di fabbrica dell’impegno morale della commedia umana degli umiliati e offesi, vincitori di due Palme d’oro e del Prix Lumière 2020 assegnato da Tarantino, Almodóvar, Scorsese, Coppola.

Un tonificant­e diario (a cura di Stefania Ricciardi che firma anche una conversazi­one con l’autore, pp. 400, € 32), che ci arriva con le sue memorie, le indelicate­zze e i dubbi, nel momento in cui il cinema vive una profonda crisi e dove l’autore di storie reali e amatissime, da Rosetta (che diede il nome a una legge sul lavoro giovanile) a L’enfant (qui sopra), da Il figlio a Il ragazzo con la bicicletta, fino all’ancora inedito Tori e Lokita, racconta il lavoro del cinema. Diviso in due parti, dal 1991 al 2005 e dal 2005 al 2014, il volume è una miniera di informazio­ni. I Dardenne temono i compliment­i, consideran­o la musica una facile evasione e non si identifica­no nella dizione di cinema sociale: «Sarebbe come dire che Delitto e castigo è un romanzo sulle condizioni sociali della vita degli studenti russi nell’800». Insomma, alziamo la posta. «I movimenti di macchina — scrive Luc — non sono necessari, per l’intensità bastano i piani fissi e un flusso di energia che passa sopra e attraverso i corpi. Perché addosso? Forse per non disperare, credere, ricreare il reale». Lungo le pagine sono citati film e libri amati, Luc fa analisi di titoli del cuore, da Ladri di biciclette a

Blow up ,da Shoah di Lanzmann a Rossellini e Bresson, da Kieslowski a Bergman fino a Hawks, Lang e altri insospetta­bili. I riferiment­i: «Rosetta è come la Bovary, una cerca il vero lavoro e l’altra il vero amore», mentre è proustiana l’analisi del mestiere: «Il cinema con la sua sala oscura viene dalla madre, dall’oscurità dell’utero che permette di credere tutto, come nel sonno profondo di un’ipnosi».

Nel corso delle memorie, Luc parla spesso con Jean-Pierre, a volte di idee che non sbocciano, dispiacend­osi di progetti abortiti ma insieme sono felici di girare film che possano far dimenticar­e almeno al pubblico di mangiare e bere in sala. L’importante è indagare sulla natura delle persone: «La vocazione del cinema è captare quello sguardo umano in cui possiamo leggere simultanea­mente il desiderio dell’omicidio e il suo divieto». Per il resto i Dardenne sanno che Dio è morto e che non si possono considerar­e adepti di una sola religione: «Siamo tutti ebrei, cristiani e musulmani in misura diversa». Il fatto di dirigere i film in coppia è un falso problema e così si rappresent­ano in idilliaco quadretto: «Due ragazzini in pigiama in due letti gemelli che giocano a spegnere e accendere la luce». E da Proust riprendono la memoria involontar­ia e l’umile felicità delle cose semplici. Con l’andare del tempo c’è la paura e il sospetto che anche il loro modo di far cinema debba cambiare, faccia una deviazione nel tepore del racconto, abdicando alla violenza dell’immagine e della macchina a mano. Un momento di pessimismo: «Tutto è già stato fatto… sputiamo fuori la bile nera… viviamo comunque il cinema che verrà». E uno di ottimismo egoriferit­o: «La posizione della macchina da presa si trova una volta sola». (maurizio porro)

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