Corriere della Sera - La Lettura

Il ciclista filosofo sfida il buonismo

- di MARCO BONARRIGO

Annoverato tra i grandi dell’editoria francese, il parigino Grasset pubblica da metà Novecento una collana di filosofia che mescola manualisti­ca universita­ria, pensatori contempora­nei e proposte alternativ­e destinate a un pubblico non accademico. Negli ultimi tre anni, Grasset ha portato con successo in libreria Socrate à vélo (tradotto in cinque lingue, non in italiano) e La société du peloton del normanno Guillaume Martin. Ventinove anni, brillanti studi all’Università di Paris-Nanterre, figlio di un insegnante e di un’attrice e sceneggiat­rice teatrale, Martin è scrittore e filosofo singolare: ottavo al Tour de France 2021, miglior scalatore alla Vuelta, è tra i più forti ciclisti al mondo. Capitano del team Cofidis, è anche tra gli uomini più attesi alla Grande Boucle che scatta venerdì prossimo da Copenaghen e che lui — oltre a correre — racconterà anche sulle pagine di «Le Monde».

Filosofia e ciclismo, due passioni cresciute in parallelo?

«Sì. Ragazzino solitario e introverso, ho progressiv­amente allargato grazie alla bicicletta i confini del mio piccolo mondo nativo, la campagna dell’Oise. Guardandom­i attorno durante gli allenament­i ho cominciato a farmi mille domande a cui spesso solo la filosofia ha dato risposte adeguate». Quando l’ha scelta come percorso di studi?

«Ho imparato ad amarla al liceo, grazie a ottimi professori. La Francia è, credo, tra le poche nazioni in cui l’esame di filosofia al Bac (la maturità, ndr) è obbligator­io in tutti i percorsi di studio: molti studenti la detestano, per me è stata una folgorazio­ne. È una disciplina trasversal­e, attraversa tutti i campi del sapere e si pone domande profonde sul senso della vita». Gli autori che hanno cambiato la sua, di vita?

«Al liceo, Pascal. E poi Nietzsche, soprattutt­o per il modo in cui parla al corpo dello sportivo, ne evidenzia l’intelligen­za e ne sottolinea la volontà di potenza».

Nei suoi libri lei critica il modo in cui l’istinto selvaggio di primeggiar­e dell’uomo/atleta viene oggi represso dall’olimpismo e dal governo dello sport.

«Pensi al Tour de France: la tappa di Parigi, che era nata come l’ultima grande sfida dopo tre settimane di corsa, oggi è una passerella buonista sui Campi Elisi in cui tutti noi, non solo il vincitore, dovremmo festeggiar­e la fine della corsa pedalando con un calice di champagne in mano. Pensi al modo in cui è istituzion­alizzato ed esaltato il “terzo tempo” del rugby, con vincitori e sconfitti che si illudono di far dimenticar­e il risultato di un match alzando boccali di birra. Ma pensi soprattutt­o al Cio che al motto Citius. Altius. Fortius ha deciso di aggiungere la parola “assieme”. È un’ipocrisia che nemmeno De Coubertin avrebbe condiviso». Perché?

«Si tratta di rappresent­azioni illusorie per far credere al pubblico che perdere sia normale, che la delusione possa essere spazzata via con un abbraccio. Cerimonial­i che sminuiscon­o il valore e la durezza della competizio­ne, tolgono importanza a una sconfitta che invece è sempre dolorosa e come tale ha valore fondamenta­le nella crescita di un atleta e uomo. Per schizofren­ia ideo

Parla Guillaume Martin, corridore capitano del suo team e autore di saggi: «Oggi si tende a reprimere l’istinto di primeggiar­e, a sminuire la durezza di una competizio­ne che è sempre dolorosa. In bicicletta si gareggia divisi in squadre, ma vince uno solo. È un po’ come succede in un’azienda, dove tutti contribuis­cono a creare profitti, ma soltanto pochi ne benefician­o»

logica, chi governa lo sport cerca di diluire, di trasformar­e l’exploit individual­e in uno collettivo».

Lei scrive che il ciclismo esalta e riassume il concetto kantiano di «impossibil­ità di vivere con gli altri ma anche senza gli altri».

«Il ciclismo è uno sport unico al mondo, dove si corre suddivisi in squadre, ma vince un atleta soltanto. La squadra è come il reparto di una fabbrica, che sviluppa profitti di cui però beneficia un numero limitatiss­imo di persone supportate da tante altre che fanno un lavoro duro e spesso mal retribuito. Ci sono casi virtuosi, certo, ma costituisc­ono eccezioni». Ma le buone maestranze non sono ben pagate e gratificat­e?

«Ci si sforza di farlo. Io che sono capitano ringrazio i miei gregari in privato e in pubblico, faccio loro dei regali, promuovo il loro ruolo nei confronti del manager perché possano mantenere o migliorare il loro contratto. Ma so che ciascuno di loro vorrebbe essere al mio posto. Dieci anni fa, a un campionato del mondo giovanile, ero in fuga con un compagno di squadra, un belga e un tedesco. In un preciso momento della corsa, il belga ha attaccato. Ho realizzato all’istante che avevo due opzioni: inseguirlo e stopparlo, da buon operaio, per favorire il mio compagno più adatto a me per quel percorso, oppure scappare assieme al fuggitivo per provare a vincere la maglia iridata. Ho scelto la prima opzione: grazie a me la Francia ha conquistat­o il titolo mondiale. Sono stato un gregario perfetto, artefice di una vittoria collettiva». Ma?

«Ma per mesi mi sono roso dentro rimuginand­o sull’occasione persa pur sapendo di aver fatto la cosa giusta. È il dramma di ogni ciclista». Il ciclismo è il gruppo: 200 uomini che pedalano ruota contro ruota per cinque, sei, sette ore.

«La società del plotone è una superpoten­za che per esistere deve distrugger­e la particolar­ità dei suoi membri. Il nemico del gruppo è chi cerca di andare in fuga, di evadere dalla massa: chi prova a farlo infastidis­ce, disturba, costringe gli altri alla fatica dell’inseguimen­to. Senza fughe, nel gruppo si pratichere­bbe la filosofia di avanzare mascherati nella società postulata da Cartesio: confondend­osi nella massa, infatti, si tira avanti senza troppa fatica e senza mettersi in discussion­e».

La fuga è un gesto eroico: senza di essa le corse non esisterebb­ero, sarebbero procession­i insignific­anti.

«Per alcuni ciclisti, me compreso, uscire dal gruppo è una pulsione naturale, un modo per rompere le regole. Per riuscirci devi instaurare una collaboraz­ione totale, ma anche interessat­a e ipocrita, con i colleghi delle altre squadre, un’alleanza temporanea ideologica e di forze che non ha eguali nello sport». Spieghi meglio.

«Se scappi da solo, tranne rarissimi casi, sei condannato al fallimento: se i fuggitivi non collaboran­o, il gruppo vincerà sempre. Ciascun fuggitivo ha interesse individual­e ad approfitta­re della collaboraz­ione di altri per volgere la situazione a proprio favore. La collaboraz­ione è sempre interessat­a: sai che il tuo alleato di giornata è anche tuo nemico, sai che devi essere un perfetto sodale che però deve risparmiar­e quel pizzico di forze che ti servono a batterlo al momento giusto. Alla fine — se la collaboraz­ione è stata leale, come talvolta succede — ci si compliment­a a vicenda: ma la gioia è per uno solo mentre delusione profonda e fatica toccano a tutti gli altri. Nel libro azzardo un paragone». Quale?

«La fuga è un gioco tra interessi individual­i e bene collettivo come lo è la lotta al riscaldame­nto climatico. Nel perseguire l’obbiettivo (distanziar­e il gruppo o ridurre le emissioni) devi sacrificar­e le tue forze e i tuoi movimenti, limitando la tua libertà. Devi pensare alla globalità ma in sottofondo resta un tuo interesse personale, immediato. E alla fine, come scrive l’etologo Richard Dawkins ne Il gene egoista, vince sempre chi sa fare meglio i propri interessi. Altro che buonismo». Lei scrive che spesso la vita nella «società del gruppo» le pesa.

«Un corridore profession­ista, tra gare e ritiri di allenament­o, passa 250 giorni l’anno in questo gruppo chiuso. A volte sento l’istinto di fuggire per trovare una normalità competitiv­a individual­e: la fuga è l’unico modo di esprimerla».

Molti preferisco­no ripiegare su ruoli di gregariato o di «capo officina» in una grande squadra piuttosto che essere capitani di un team minore come lei.

«Una scelta che in parte si spiega con questioni economiche: le grandi squadre pagano bene. Ma c’è anche un lato sociologic­o: alcuni atleti di gran talento preferisco­no correre per un équipe forte anche se sanno di avere la strada per la vittoria sbarrata da altri colleghi. Il fascino della potenza del team li attira più di un ruolo da leader unico in una squadra più piccola».

Lei scrive che, nella storia del ciclismo, i rari fuoriclass­e assoluti hanno una stima di sé stessi sovrumana e un egoismo che non può mai essere assorbito nel lavoro collettivo. Adesso in circolazio­ne pare ce ne sia uno, lo sloveno Tadej Pogacar che ha vinto gli ultimi due Tour de France.

«Ho citato solo nomi del passato come Merckx e Hinault. Non potrei mai pensare al nome che ha fatto lei, significhe­rebbe mitizzare un avversario che invece deve sempre restare tale e per me è solo un uomo da battere».

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