Corriere della Sera - La Lettura

Luce per il Brasile

Il 7 agosto compie ottant’anni un cantautore e chitarrist­a leggendari­o, punto di riferiment­o musicale, nonno felice, protagonis­ta di battaglie sociali e civili. Buon compleanno, Caetano Veloso

- di IGIABA SCEGO

«La Lettura» lo intervista anche perché il Paese il 2 ottobre affronta un’elezione sofferta, Lula contro Bolsonaro. «Una polarizzaz­ione insormonta­bile. Voterò per Ciro Gomes. Se perde tiferò Lula»

Ha rivoluzion­ato la musica, con il movimento del Tropicalis­mo (insieme all’amico e collega Gilberto Gil) ha inciso nel cuore della società brasiliana, con il suo corpo ha pagato e sofferto il carcere e l’esilio. A ottant’anni — li compirà il 7 agosto — la battaglia di Caetano Veloso, molto più di un cantautore e molto più di un chitarrist­a, continua. Per l’ambiente e l’Amazzonia, polmone dissanguat­o del Brasile e del mondo; per abbattere le diseguagli­anze che lacerano la sua terra; per dare un altro futuro a un Paese chiamato il 2 ottobre a un voto presidenzi­ale decisivo su Bolsonaro e sul ritorno di Lula.

Nell’intimità della sua casa, dove lo raggiunge «la Lettura», Caetano Veloso abbraccia il suo essere nonno con gioia e stupore. Si interroga sulla vecchiaia, che non vive come una catastrofe, perché la vecchiaia è soltanto un’altra opportunit­à per esplorare nuovi livelli di esistenza e di conoscenza.

Dal punto di vista musicale continua a essere l’uomo curioso che è sempre stato, costante punto di riferiment­o di giovani cantanti brasiliani con cui intreccia alleanze e note musicali. Rimane un sognatore, ma anche un attento osservator­e di quello che succede nel suo Brasile e nel mondo.

Caetano Veloso, lei ha cominciato a cantare da bambino le canzoni che sua madre Dona Canô ascoltava alla radio — samba, vecchi bolero... Da allora la sua voce ha vissuto mille vite. Com’è la sua relazione con la sua voce oggi che sta per compiere ottant’anni?

«Mi è sempre piaciuto cantare e mi piace ancora. Sento come cambia (fisicament­e ma non solo) con l’età. Ma cantare è ancora un piacere per me. All’età di 80 anni mia madre cantava ancora molto bene, aveva una voce dolce e ferma. Ho un vantaggio genetico. Osservo i limiti che derivano dalla vecchiaia, ma riconosco ancora l’essenza della mia voce quando canto».

C’è una frase che viene attribuita ad Anna Magnani, l’attrice romana, sull’invecchiar­e: «Lasciami tutte le rughe, non me ne togliere nemmeno una. C’ho messo una vita a farmele!». Anche per lei è così? Invecchiar­e è un viaggio?

«Ho sempre amato questa frase della Magnani. Mi osservo invecchiar­e con la curiosità di un bambino. Non voglio nascondere le rughe, i capelli bianchi, i cedimenti che ho nella voce... Diventare vecchio è una circostanz­a felice. Se fossi morto a 24 anni o a 35 anni o chissà, non avrei potuto provare quello che provo. Quindi sì, è un viaggio. Non dico che sia una situazione del tutto privilegia­ta, ma vale sempre la pena conoscere nuove situazioni».

Uno dei suoi tour più amati è stato «Ofertório», realizzato con i suoi tre figli Moreno, Tom e Zeca. Un’esperienza che avete poi ripetuto regalando ai brasiliani un concerto che la gente chiusa in casa in piena pandemia ha potuto seguire. Avete regalato un attimo di felicità in una stagione di grande dolore. La pandemia com’è stata per lei?

«Difficile, come per tutti. Ma tra il 2019 e il 2020, dopo l’estate tropicale, come facciamo sempre, siamo andati a stare qualche settimana in una casa che mia moglie Paulinha aveva dato, insieme al padre, alla madre, ma che quest’ultima non usava più perché troppo isolata. Per qualche tempo era stata affittata alla gente di Rio. È una casa su tre piani, con un giardino rigoglioso e la vista sul mare. L’appartamen­to in cui vivevamo a Ipanema era in ristruttur­azione. È stato molto più bello trascorrer­e la quarantena qui rispetto a un appartamen­to. Sono stato fortunato. E sono stato fortunato anche perché il mio figlio più giovane, Tom, ha avuto un bambino: lui, la sua compagna e il piccolo sono venuti qui con noi».

Che idea s’è fatto della gestione della pandemia in Brasile?

«Il governo brasiliano ha agito nel modo peggiore che si possa immaginare: il presidente Bolsonaro ha persistito in un negazionis­mo sfacciato e il bilancio delle vittime è stato, finora, di quasi 700 mila morti. Abbiamo perso amici e colleghi, a volte eravamo sopraffatt­i dall’angoscia. Aggiungiam­oci i misteri che hanno circondato l’emergere della malattia e le numerose teorie del complotto che ne sono seguite. Abbiamo attraversa­to questi due anni

tra la gioia di vedere il mio terzo nipote (il primo di Paulinha) affacciars­i alla vita, guardare il mare, il frutteto, i filari dell’orto e la paura per la nostra vita e quella di tutta la nostra gente, vicina o sconosciut­a . La madre di Paulinha era una psicoanali­sta e una parte della casa, al piano di sotto, vicino alle piante, che era stata usata da lei come studio medico e ufficio, è stata trasformat­a da Paulinha in un piccolo studio di registrazi­one. Ho chiamato uno dei compagni di band di mio figlio, un giovane musicista molto talentuoso e competente (che conosce anche le apparecchi­ature di registrazi­one), per registrare le nuove cose che ho composto nel frattempo. È nato così Meu Coco, un album con canzoni che avevo iniziato a comporre a Bahia. E il live che ho fatto con i miei figli, ispirato a Ofertório, è stata una benedizion­e per tutti noi».

I genitori insegnano ai figli, e questo si sa. Ma i figli che cosa insegnano a un genitore? I suoi figli, musicalmen­te e umanamente, soprattutt­o dopo il tour insieme, che cosa le hanno insegnato?

«Anche i genitori imparano molto dai propri figli. Io dico sempre che la nascita di Moreno, il mio primo figlio, nato dalla mia prima moglie Dedé, è stato l’evento più importante della mia vita adulta. Con lui ho imparato ad amare i bambini — e ho avuto la rivelazion­e di quell’amore incondizio­nato che vedo ripetersi soltanto con Zeca e Tom, i due figli che abbiamo avuto con Paulinha. Tutti e tre mi insegnano tanto. Non solo cose fondamenta­li come l’amore assoluto ma anche, a mano a mano che crescono e maturano, molte cose pratiche e teoriche».

Lei e i suoi amici, Gilberto Gil, sua sorella Maria Bethânia Veloso, Gal Costa, Chico Buarque e tante e tanti altri, siete una colonna portante della musica brasiliana. Ma siete anche molto amici. Ascoltando la sua musica si ha la sensazione che l’amicizia sia un elemento segreto di ogni canzone scritta da lei o da scrivere ancora. È così?

«Appena mi sono affacciato alla vita di musicista profession­ista (quando Bethânia, che ha quattro anni meno di me, è stata invitata, a 17 anni, a sostituire Nara Leão in un piccolo musical intitolato Opinião) ho subito amato l’atmosfera di amicizia tipica tra i compositor­i e i cantanti della fase che ha immediatam­ente seguito la bossa nova. Ancora oggi provo amicizia nei confronti di Chico, di Milton, di Jorge Ben, di tanti altri. E di altri più giovani che sono venuti dopo: Djavan e Marisa Monte e i rocker degli anni Ottanta. Nella mia generazion­e, anche con figure come Dori Caymmi, che si oppose fermamente a ciò che Gil e io proponevam­o con il Tropicalis­mo, siamo rimasti buoni amici. Resiste un’atmosfera di reciproca ammirazion­e che è notevole. E sì, l’amicizia, come sostrato generale, a prescinder­e dal fatto di essere colleghi, è qualcosa di molto importante per il clima poetico in cui mi muovo. Nel samba-rap Língua, che ho composto e registrato nel 1982, c’è questo brano: “E so che la poesia sta alla prosa come l’amore sta all’amicizia: e chi può negare che questa gli sia superiore?”. Mi piace Proust, per cui solo l’amore conta e che non considera per niente l’amicizia, ma su questo argomento la penso più come Nietzsche. O forse, provocator­iamente — in una canzone provocator­ia fin nella definizion­e: samba-rap — volevo mettere un po’ in crisi la lotta tra amore e amicizia».

Lei è molto curioso della musica degli altri. Le sue cover d’autore hanno sempre permesso ai suoi estimatori di conoscere cantanti e sonorità nuove. Oggi che cosa la incuriosis­ce nel panorama brasiliano e mondiale?

«Ho sempre amato le canzoni. Prima le canzoni brasiliane, poi i tanghi argentini, i boleri cubani e messicani, le canzoni americane, tutto. Ma già durante il Tropicalis­mo, nel 1967 e nel 1968, mi interessav­a il modo ingenuo con cui i giovani musicisti brasiliani si lasciavano attrarre dalla musica americana piuttosto che dalla propria. Tanto che oggi conosco molte più canzoni di Cole Porter e Irving Berlin, di Gershwin e Rogers & Hart che dei Beatles o degli Stones. Dopo il mio arresto ed esilio, sono tornato in Brasile e non potevo sopportare più di sentire musica inglese o americana all’autoradio. Ancora oggi, c’è in me un’attenzione spontanea verso tutto ciò che accade nel Brasile musicale rispetto ai successi internazio­nali. Non perdo di vista il quadro generale, ma non mi piace ascoltare passivamen­te. Nel mio album Meu Coco nomino molti nuovi cantanti brasiliani di vari generi. Tra i miei grandi successi ci sono canzoni non scritte da me ma di cui ho inciso una cover e che sono

rimaste segnate dalla mia voce. Penso che sia perché provo molto più piacere nel cantare che nel comporre».

Se non avesse fatto il cantautore che cosa avrebbe fatto?

«Cinema».

Due anni fa è stato presentato fuori concorso al Festival del Cinema di Venezia il documentar­io «Narciso in vacanza» sulla sua prigionia durante la dittatura militare, quella che poi la portò all’esilio in Europa, a diventare rifugiato, a mostrare tutta la sua fragilità e la sua resilienza. Com’è stato mettersi a nudo? Soprattutt­o su un tema così doloroso e drammatico come questo?

«Due registi stavano per girare un documentar­io basato sul capitolo “Narciso in ferie” tratto dal mio libro Verità Tropicale. Musica e rivoluzion­e nel mio Brasile (pubblicato in Italia da Sur, ndr). In primo luogo, hanno girato un’intervista con me; poi, partendo da lì, hanno intervista­to Gil (che è stato arrestato insieme a me), altre persone coinvolte, i miei familiari; hanno visitato le caserme... Ma quando hanno rivisto il materiale della mia intervista, hanno deciso di basare il film solo su quello. Mi hanno mostrato, senza preavviso, documenti di cui non ero neppure a conoscenza. E sono rimasto colpito. A volte indignato, a volte commosso. Il film è stato girato prima che il candidato di estrema destra fosse eletto presidente (Jair Bolsonaro si è insediato il 1° gennaio 2019, ndr). È un uomo che ripetutame­nte, per decenni, come deputato, ha elogiato il periodo della dittatura militare, i torturator­i, e oggi sta smantellan­do l’assetto democratic­o. Tutto è stato filmato prima di immaginare che un personaggi­o del genere potesse salire al potere».

Che cosa si augura per il futuro del suo Paese alla vigilia delle elezioni?

«Vorrei che si vedesse finalmente una luce. Il candidato per cui voterò è Ciro Gomes, un politico esperto e intelligen­te che ha un piano a lungo termine per il Brasile (avvocato e docente universita­rio, Gomes è vicepresid­ente del Partido Democrátic­o Trabalhist­a, laburista, membro dell’Internazio­nale socialista, ndr). La polarizzaz­ione tra Lula e Bolsonaro sembra insormonta­bile. Comprendo e partecipo dell’amore che gran parte della popolazion­e ha per Lula. La sua storia, la creazione del Partido dos Trabalhado­res, la sua ascesa al Palazzo del Planalto, i suoi due mandati che hanno dato forza alla gente e ai territori a basso reddito... tutto questo merita tanto amore. Ma vorrei un Brasile più maturo rispetto a questo pendolo che non smette di ondeggiare tra l’estrema destra, che si è imposta in seguito a un’ondata globale di destra, e una sinistra il cui leader è stato recentemen­te in carcere (per un’azione congiunta di pubblici ministeri e di un giudice diventato poi ministro del presidente di destra eletto proprio sulla scia di questo processo sospetto), in un’America Latina dove queste rapide oscillazio­ni rischiano di fare gli interessi dell’imperialis­mo. Sogno un Brasile di nuovo in crescita, ma senza le diseguagli­anze scandalose del “miracolo economico” del ministro Delfim Netto, che faceva il bello e il cattivo tempo durante il periodo dittatoria­le, un Brasile che entri in un’onda lunga di affermazio­ne nazionale che apra a un’influenza brasiliana nel mondo, una nuova luce che allevi i dolori dell’umanità nei suoi terrifican­ti squilibri. Il Brasile ci ha fatto vedere cose orrende, ma non possiamo dimenticar­e che è stato anche culla di tanta bellezza. Si tratta solo di fare il tifo per Lula, nel caso diventasse sempre più chiaro che Gomes non ha possibilit­à. Ma anche sperare che Lula, una volta eletto, porti nel governo molti contenuti del programma di Gomes. O qualcosa che sorprenda e realizzi più di quanto lo stesso Gomes abbia in programma. Si sa quanto sarà difficile per Lula o Gomes tirare fuori il Brasile dall’orrore di un mondo devastato dalla pandemia, dalla guerra russa contro l’Ucraina, da una situazione economica terribile. Dal terrore per l’ambiente alla messa in discussion­e della scienza, tutto punta a cambiament­i profondi, che dureranno nel tempo. Sogno di liberare il Brasile dalle catene coloniali, dalle menzogne del neoliberis­mo, dalla mediocrità».

E il suo futuro? Quali sono i suoi progetti?

«Compio ottant’anni domenica prossima. Ho in programma uno show in tv con i miei figli e mia sorella, per celebrare ciò che c’è da festeggiar­e e continuare a guardare le cose con attenzione, per vedere come andranno». (si ringrazian­o per la collaboraz­ione nella traduzione dal portoghese Daniele Petrucciol­i e Giorgio de Marchis)

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