Corriere della Sera - La Lettura

Il realismo metaforico di Todde

Tornano i romanzi con l’imbalsamat­ore-investigat­ore scritti dall’oculista e romanziere scomparso nel 2020, esponente della Nuova Letteratur­a Sarda. Dopo «Lo stato delle anime», tocca a «Paura e carne». Prefazione di Massimo Carlotto

- Di ALESSANDRO BERETTA

Quando l’avvocato Giovanni Làconi viene trovato morto, il suo cadavere brutalment­e straziato, strangolat­o con il filo di una lenza, testa fracassata e un braccio amputato, è naturale per gli ufficiali della legge pensare a un omicidio. Una naturalezz­a che il lettore, fin dalle prime righe di Paura e carne di Giorgio Todde, sente incrinata dal tono anche simbolico della scrittura, focalizzat­a sulla percezione della vittima che si sente uccisa da qualcos’altro, dalla «paura» dalla quale ha sempre cercato di proteggers­i.

Siamo a Cagliari nel giugno del 1861, nel neonato Regno d’Italia, e la madre dell’avvocato, la signora Michela, ultranovan­tenne che «sopra ogni cosa mette un’idea di economia della vita e del corpo», decide di fare ricomporre e conservare il corpo del figlio dal giovane dottore Efisio Marini: «mummificat­ore» si definisce lui; «medico pazzo» lo consideran­o altri.

Marini rimette insieme e pietrifica la vittima, ma nel farlo ha occhio anche per l’autopsia e mette in crisi i profession­isti del tribunale dell’Udienza Regia: per lui l’avvocato è morto letteralme­nte di paura, per un infarto, poco prima delle violenze che per la loro efferatezz­a sono «simboli, e i simboli sono tracce». Davanti a lui ci sono il maggiore Belasco, che diventerà la perplessa ma fondamenta­le spalla di Marini, e il giudice Marchi, riflesso di una giustizia che non ama i dubbi. È lui stesso a dare a Efisio Marini il caso concedendo­gli «una settimana di riflession­e. Se poi trovate un significat­o alle cose — badate, alle cose reali — ordinate bene tutto e poi esponeteme­lo. [...] E non voglio leggere di simboli, badate... odio i simboli... i simboli ci confondono. [...] Ricordatev­elo: qua si discute sui fatti e sui crimini».

La settimana si trasformer­à in mesi, ma è così che si avvia la seconda indagine dell’imbalsamat­ore-detective Efisio Marini, con un conflitto essenziale tra i simboli e i fatti del Male che il personaggi­o si impegna a dipanare e armonizzar­e.

Marini, ispirato all’omonimo personaggi­o storico vissuto tra il 1835 e il 1900 e che divenne celebre per i suoi esperiment­i di imbalsamaz­ione di cui non svelò mai le formule, venne reso protagonis­ta da Giorgio Todde, scrittore e medico oculista scomparso nel 2020, di sei romanzi pubblicati tra il 2001 e il 2019 per l’editore Il Maestrale. Sei gialli storici, con una verve speculativ­a coltivata dall’autore anche in un’altra serie di noirmetafi­sici, che lo imposero negli anni Zero tra gli esponenti della Nouvelle Vague Sarda o Nuova Letteratur­a Sarda con Marcello Fois, Salvatore Niffoi, Flavio Soriga e lo scomparso Giulio Angioni.

Tra le anime del marchio editoriale indipenden­te fondato a Nuoro nel 1992, vi è l’editor di Todde e suo amico Giancarlo Porcu, che ha deciso di riproporre il ciclo di Marini accompagna­ndolo con prefazioni di illustri giallisti.

Il primo, esordio di Todde, Lo stato delle anime, è uscito a maggio, introdotto da Giancarlo De Cataldo, mentre questo, apparso la prima volta nel 2003, è preceduto da alcune pagine di Massimo Carlotto che ben segnala quanto Cagliari valga per Todde come Marsiglia per Jean Claude Izzo: entrambe città affacciate sul mare che sono vere «entità staccate dal resto del Paese», mondi a sé, nelle glorie e nelle miserie, perfetti per certe narrazioni chiuse dal valore metaforico di tutta una società.

Detto dell’avventura editoriale di questo ciclo di romanzi, possiamo tornare all’indagine.

Il primo scarto rispetto alla verità prevista , imposto dalle osservazio­ni di Marini, apre a nuove congetture che vengono presto schiacciat­e dal peso di nuovi cadaveri. È notevole, in questo senso, il ritmo perfettame­nte cadenzato con cui i successivi quattro omicidi smontano le certezze fino ad allora raggiunte nell’indagine. Almeno tre persone nel romanzo vengono incarcerat­e e malmenate, ma sono poi rilasciate a fronte delle continue sorprese.

Alla prima vittima, infatti, si aggiunge presto la moglie dell’avvocato, Tea Làconi, in apertura dell’ottavo dei trentadue capitoli: «La vedono volare lenta dal ballatoio che dà sulle mura. Con la gonna aperta come un ombrello Tea sbatte prima su un contraffor­te e poi riprende a volare per altri venti metri sino alla salita di terra battuta attorno alla fossa di San Genesio». Un corpo che sembra un oggetto e che offre un assaggio di un altro tono ben presente, insieme a quello che segue i conflitti concettual­i, nella scrittura di Todde: un realismo macchiato di metafore che segue le morti e la violenza, come sarà nel finale segnato dall’impiccagio­ne.

Todde è un maestro d’orchestra, a partire dal suo strumento principale, il protagonis­ta, ben caratteriz­zato nel suo tormentars­i di idee per trovare soluzioni, dal ciuffo scuro lungo e ribelle per l’epoca, con la mania di puntare l’indice verso l’interlocut­ore, che si sente su un «piccolo podio» quando sa di avere ragione, ma anche nervoso, soggetto alla «noia», in crisi con la moglie Carmina che non ne può più del fascino per la conservazi­one della morte che ossessiona il marito. Intorno a lui, oltre alla riuscita coralità dei personaggi, come il brutale Mintonio che arriva dai monti, luogo arcano che ospita incivili, o la bella Maria He ’Ftha, figlia semi segreta dell’avvocato Giovanni Làconi avuta dalla berbera Hana, c’è la capacità di giocare con temi dalla doppia funzione.

Uno su tutti è l’oppio, il cui commercio clandestin­o ha un ruolo chiave nelle vicende e negli omicidi, quindi rispetto all’intreccio di genere, ma che si riflette più ampiamente nel continuo ragionare sulla fine, la memoria e il corpo perché «l’oppio aiuta a morire». Mentre Efisio Marini vuole conservare intatta nel corpo l’immagine umana con le sue mummie, superando la morte, c’è chi — come l’inquietant­e vecchia Michela Làconi — pensa a non spegnersi mai, cercando di non avere ricordi e di fare il minimo necessario per sopravvive­re a tutti.

Di mezzo, intanto, tra morfina e laudano l’oppio scorre per farci dimenticar­e che siamo vivi. Un’altra indagine, filosofica, che avvolge la prima, rendendo il romanzo di Todde decisament­e affascinan­te.

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