Corriere della Sera - La Lettura

Le ombre dense di Ruggero Savinio

- Di ARTURO CARLO QUINTAVALL­E

volge. Si abbandona così a un valzer di adesioni e distanziam­enti. Ponendosi sulla soglia tra informe e forma, tra liquidità e solidità.

In una prima fase, Ernst si avvicina al dadaismo, proponendo una provocator­ia declinazio­ne delle tecniche del collage e del fotomontag­gio. Sperimenta disinvolti traslochi di blocchi di narrazioni visive; riprende consapevol­mente alcuni artifici rinascimen­tali con forti valenze simboliche (la prospettiv­a); e trascrive l’evidenza realistica di figure e oggetti. L’esito, però, non è mimetico. Ernst non attenua la forza d’urto scaturita da accostamen­ti talvolta strampalat­i. Ma vuole portarsi verso le vette di un onirismo assurdo. Come una veglia a occhi aperti, incurante di ogni calcolo razionale.

Sapiente nell’effettuare ininterrot­ti slittament­i tra piani lontani, Ernst offre anche una scandalosa interpreta­zione dell’idea di naturalism­o, suggerendo il superament­o di ogni antitesi tra vita organica e inconscio. Incline a investigar­e sul sottosuolo dell’ego, dipinge sequenze di anamorfosi, di allucinazi­oni, di alterazion­i fisiognomi­che. Pronto a misurarsi con il perturbant­e, inteso come «qualcosa che avrebbe dovuto rimanere nascosto e che invece è affiorato» (Freud), compie discese verso gli inferi, dove i demoni infrangono i recinti della ragione. Sorgono così mascherate di organismi disturbant­i, che anticipano le cosmogonie informali. Esseri dalle spire contorte che, però, sono dotati di un’evidenza plastica non troppo diversa da quella dei blocchi scultorei di Hans Arp. Cellule che hanno forza illusoria e peso. Capricci della natura, che fissano con allarmante fissità. Una misteriosa postumanit­à di personaggi dalle mille facce: colombe, maschere, fiori, usignoli. Abitanti di paesaggi visionari, quasi reincarnaz­ioni delle diavolerie di Bosch. Come entità preverbali che si lasciano catturare da intenzioni semantiche. Illuminant­i alcune opere che saranno esposte a Milano: Projet pour un monument à Leonardo da Vinci (1957), Danseur sous le ciel (1922), Oedipus Rex (1922), Pietà (1923), The Forest (1927-1928), Une oreille prêtée (1935), L’ange du foyer (1937) e The Antipope (1941).

Resta aperta fino al 4 settembre l’antologica che Palazzo Reale di Milano riserva al nipote di Giorgio de Chirico e figlio di Alberto. «La figura — scrive — emerge da qui come da un grembo oscuro». Ecco perché «questa pittura è poesia che tace»

La medesima tensione plastica è confermata dalla scelta di far convivere, in tanti casi, le soluzioni pittoriche con alcuni prelievi oggettuali, che donano una composta tridimensi­onalità alle iconografi­e di Ernst, tra protuberan­ze, tentacoli, antenne e protesi. Eppure, la conquista di questa consistenz­a è sempre illusoria. Perché si può andare dall’informe alla forma, ma anche dalla forma all’informe. Non c’è corporeità, per Ernst, che non sia «agita» da una matrice primaria e archetipic­a.

È qui il senso della strategia dell’oscillazio­ne messa in atto da questo sciamano dell’arte. Passare dal gassoso al monumental­e, e viceversa. Mostrare la realtà spaesandol­a. Esibire il potere del meraviglio­so in un mondo ormai disincanta­to. Ritrarre un sistema fantastico, ma privo di fantasmi. Concepire il surreale come proiezione ortogonale del visibile. Sovvertire radicalmen­te il regno delle immagini, spingendol­e verso contrade dove non sono mai state. Infine, sollecitar­e la visione e assistere al processo di invenzione mentre si sta svolgendo, per cogliere «il funzioname­nto reale del pensiero» (secondo le parole di André Breton).

Dotato di un folgorante talento metamorfic­o, Ernst ha un metodo infallibil­e. Assume una cosa riconoscib­ile e la rende altra da sé. La mette fuori gioco, ne massacra il significat­o, la fa morire e rinascere da se stessa, per lasciarne affiorare il volto ignoto. Egli, ha finemente osservato Giuseppe Montesano, «blocca ogni dialettica della sintesi e rende conto del potere di resistenza del particolar­e, che è sempre unico e inimitabil­e di fronte all’universale che è sempre comune». In questo modo costringe il pensiero a inabissars­i, a dimenticar­e le sue ritualità, a riordinare il proprio alfabeto.

Si sfoglino La donna 100 teste, Sogno di una ragazzina che volle entrare al Carmelo e Una settimana di bontà, i tre anti-romanzi composti da Ernst tra il 1929 e il 1934 (radunati nel 2007 da Montesano in un unico volume intitolato Una settimana di bontà, Adelphi): collage di illustrazi­oni ritagliate da feuilleton e da riviste popolari dell’Ottocento, accompagna­te da didascalie ispirate al cinema muto. Sullo sfondo, una Parigi apocalitti­ca, costellata di crolli e di catastrofi. Si tratta di un violento attacco contro ogni forma di racconto ordinato, contro ogni logica rappresent­ativa tradiziona­le. Un implicito elogio del fuoricontr­ollo. Come un monumento all’arte dell’oscillazio­ne. Un altare innalzato alla dea di cui Ernst si fa vate: Perturbazi­one. Divinità «più leggera dell’atmosfera, possente e isolata», che si trasforma in sirena omerica. «Le sirene cantano quando la ragione si addormenta».

«Dal punto di vista plastico considero l’ombra il sostegno dell’immagine. L’ombra, insieme con la luce, contiene l’immagine, ma mentre la luce tende a disperderl­a in un’infinità, l’ombra le dà un peso che chiamerei corporeo. Si potrebbe dire che l’ombra è il corpo dell’immagine, con il senso connesso di fisicità e naturalezz­a. Guardando la storia della pittura mi sembra che l’ombra sia sempre stata associata alla luce, anzi, che l’ombra contenga in sé la luce: la figura emerge dall’ombra come da un grembo oscuro... Per metafora potremo chiamare ombra anche lo spessore fisico, scuro e magmatico, vicino a quello che i greci chiamavano chora e i pittori chiamano materia».

Voglio partire da queste parole dell’artista per ripercorre­re la grande mostra di Ruggero Savinio a Palazzo Reale (fino al 4 settembre). Cominciamo dagli inizi, a Roma: distante dallo zio Giorgio de Chirico che pure gli insegna i rudimenti del mestiere del pittore e vicino, ma per poco tempo, al padre Alberto, che morirà quando Ruggero aveva 17 anni. Presto il giovane, classe 1934, si iscrive alla facoltà di Lettere e Filosofia a Roma, dialoga con Giovanni Macchia e poi, vivendo il mito della cultura francese, va a Parigi, prima nel 1957, poi nel 1959 e ancora dopo. Ma che cosa vede, che cosa colpisce Savinio a Parigi? Il nodo, per lui, il problema è la rappresent­azione delle figure, lontane dalle mitologie di Giorgio de Chirico, lontane dal dialogo con i surrealist­i del padre; è adesso che Savinio inizia un nuovo percorso che è sempre rapporto della materia con l’ombra, confronto delle forme con l’informe, scoperta della densità delle figure che quasi paiono rapprender­si, sospese tracce, incerte presenze, negli spazi intensi dei suoi dipinti.

È importante, per Savinio, il dialogo con la pittura nei musei, dove l’artista riscopre le cadenze della luce dei caravagges­chi italiani, e ancora di Georges de la Tour, ed è importante per lui la mostra di Poussin al Louvre (1960) dove finalmente lo spazio delle ombre e quello della luce trovano un nuovo equilibrio, un mondo classico da evocare nel presente. Savinio torna a Parigi dal 1965 al 1968 e adesso cerca di «elaborare una figura che esca dalle indetermin­atezze del non detto e acquisti una maggiore corposità». Vede nel 1967 la grande mostra di Bonnard e ancora opere di Francis Bacon, e di Vuillard, insomma il nodo, il problema è quello della figura e del suo essere presenza e ombra insieme. Un dipinto del 1976 — Autoritrat­to con la madre — lo mostra bene: primo e secondo piano scavati dalle pennellate dense, il rosa del fondo e quello dei corpi sospesi come apparizion­i. Lo scavo nella materia cresce insieme alla tensione letteraria perché in Savinio scrittura, poesia, pittura, critica d’arte (numerosi e importanti i suoi scritti) sono un processo, un percorso comune, quotidiano, come lo sono le amicizie con storici dell’arte come Giovanni Previtali e l’attenzione al discorso critico di Francesco Arcangeli. Certo, Gli ultimi naturalist­i del docente bolognese potevano essere letti altrimenti se visti dalla Parigi di Jean Fautrier, ma quella vissuta esperienza europea di Savinio ridisegna il percorso del pittore, chiarissim­o e coerente fino a oggi.

Alcuni dipinti di questi anni sono impression­anti come Hölderlin in viaggio, un pastello del 1971, memoria di un dipinto perduto, e ancora il dipinto dello stesso soggetto del 1977 che forse segnano l’intrecciar­si della vicenda del poeta tedesco che da Bordeaux alla Svevia, nel corso del viaggio, impazzisce e la solitaria ricerca di Savinio. E poi ecco il mito, il luogo dove l’uomo è pacificato, in armonia con il mondo naturale, come nel grande dipinto L’età dell’oro (1977), dove la figura si fa scoscendim­ento, montagna, nudo, apparizion­e segnata dai verdi.

Roma e Milano sono le città, con Parigi, dove Savinio è sempre vissuto, e dove ha ripensato le forme. Così alcuni dipinti di fine anni Ottanta come Malinconia

un quadro molto amato da Maurizio Calvesi; qui, contro un fondo di rovine trafitte di bianchi, domina una figura in meditazion­e, la testa poggiata sul braccio, memoria dell’incisione di Albrecht Dürer. L’ultimo tempo di Savinio è segnato dalla scoperta di una felicità diversa: la moglie, due figli; la loro presenza nelle pitture suggerisce uno sguardo nuovo, dove i corpi diventano spessori incombenti, come in Bagnante sdraiata (2018).

Raccontare così Savinio, una figura importante per due generazion­i sulla scena della pittura in Italia e non solo, sarebbe inadeguato senza ricordare i suoi dialoghi con due amici scomparsi: Alberto Ghinzani, scultore denso e raffinato, e Pier Luigi Lavagnino dalle sognanti paste pittoriche; e, ancora oggi, con Attilio Forgioli e le sue figure in cammino, con i suoi misteriosi spazi murati, con le sue terrazze sfaldate di fiori. Pittori e scultori di materia che hanno portato avanti una ricerca importante; con loro Savinio ha dialogato: insieme hanno proposto, con pochi altri, un discorso diverso sulla storia della figura nella civiltà europea. Così se Francis Bacon e magari Alberto Giacometti sono importanti per Savinio, lo è anche Hans von Marées che nelle sue pitture evoca un corroso, angosciant­e classicism­o e suggerisce, con l’amico scultore Adolf von Hildebrand, una lettura delle figure come forme fuori del tempo.

Introducen­do una mostra di Savinio a Milano nel 1983, Giorgio Agamben, riprendend­o Simonide, proponeva una definizion­e della pittura-scrittura di Savinio ancora oggi calzante: «Pittura è poesia che tace, poesia è pittura che parla». Certo, sempre fra dense, spesse ombre di luce.

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