Corriere della Sera - La Lettura

Il calcio è inganno (come le altre arti)

Ha scritto un libro che è una storia di Maradona, una storia dell’Argentina e una storia della critica. Perché non esiste un capolavoro senza qualcuno che lo esalti

- Di EMANUELE TREVI

Nel bellissimo documentar­io che gli ha dedicato Asif Kapadia, si può ascoltare una meditazion­e di Diego Armando Maradona che, a mio parere, vale come intere bibliotech­e di estetica e teoria dell’arte. Sono parole, infatti, tanto sagge quanto semplici, che si addicono perfettame­nte all’arte del calcio, ma anche alla scrittura letteraria, al cinema, alla musica, e a qualunque forma di espression­e che aspiri a stupire, commuovere, eventualme­nte illuminare. Ridotto all’osso, alla sua essenza più preziosa, il calcio, secondo Maradona, è un inganno: tutto sta nel far credere all’avversario (ma potremmo anche dire al lettore, allo spettatore...) che stai andando in una direzione, e all’improvviso cambiare strada.

Ha ragione il grande Diego: ogni volta che ci imbattiamo nel più indefinibi­le dei fenomeni, ciò che per comodità chiamiamo «bellezza», è sempre all’opera un inganno di questo tipo: pensiamo di essere in grado di prevedere dove sta andando un grande artista, fino al momento in cui, basta una lievissima finta, ci rendiamo conto che... è andato da un’altra parte!

Ho molto pensato a questa «estetica in nuce» di Maradona leggendo il bel libro calcistico di Olivier Guez, il cui titolo, Nel paese dell’aquilone cosmico, rimanda sempre all’asso argentino, al quale, per terrorizza­re gli avversari, bastava fare qualche noncurante palleggio durante il riscaldame­nto prepartita. L’inventore dell’indimentic­abile epiteto fu Victor Hugo Morales (il destino di poeta era inciso nel suo nome), il grande telecronis­ta argentino che, nonostante tutti i cigarillos che fumava, riusciva a superare i trentatré secondi gridando «gooooooooo­ool» a squarciago­la. L’occasione, come tutti gli appassiona­ti di queste materie sanno bene, fu il secondo gol di Maradona (il primo, ugualmente celebre, lo fece di mano) in Inghilterr­a-Argentina nei quarti di finale del campionato del mondo messicano, il 22 giugno 1986. Ma bisogna leggere tutta la trascrizio­ne, a pagina 162 del libro di Guez, del commento in diretta di Morales a quel sublime slalom che traumatizz­ò l’intera nazionale inglese, per apprezzare a pieno l’invenzione verbale dell’estasiato telecronis­ta. Guez, che è andato a intervista­rlo, ovviamente ha chiesto a Morales come gli sono venute in mente quelle parole insieme assurde e perfettame­nte calzanti: ma sarebbe come chiedere a Shakespear­e che cosa aveva pensato al momento di scrivere il monologo di Macbeth.

Ma il punto decisivo dell’intero libro di Guez mi sembra un altro: l’impresa irripetibi­le di Maradona allo stadio Azteca fa corpo con la voce di Morales che lo commenta. Con buona pace degli spontaneis­ti, che credono ingenuamen­te che possano esistere i capolavori senza un discorso che li esalti e li consacri, tutte le arti hanno bisogno della loro critica: e poco importa che i critici vengano sempre vituperati come artisti di serie B o parassiti, è sempre il giudizio che sostiene l’opera e la rende percepibil­e, non c’è nulla di innocente in queste faccende, si tratti di inseguire un pallone o di comporre un poema o una sinfonia.

Guez lo sa bene: la sua storia della società e della cultura argentine attraverso la religione del calcio non è solo una vicenda di grandi campioni e allenatori geniali. Molto istruttivo a questo proposito è il capitolo del libro dedicato a una rivista fondata nel 1919 a Buenos Aires, «El Gráfico». Fu il suo direttore, l’uruguayano Lorenzo Borocoto, a teorizzare per primo un calcio diversissi­mo dai razionali e prudenti schemi di gioco inglesi ed europei. Il gioco rioplatens­e, ovvero quello caratteris­tico dei Paesi attraversa­ti dal Rio de la Plata (Uruguay e Argentina), era essenzialm­ente fondato sugli aspetti più imprevedib­ili e irrazional­i del calcio: l’estro individual­e, il coraggio della giocata, l’eleganza del tocco, l’indifferen­za per il risultato. Osserva giustament­e Guez che non siamo lontani dalla filosofia del tango. Ma la cosa più interessan­te è che le teorie del «Gráfico» (da quello che ne capisco dal libro di Guez, la rivista ha una certa somiglianz­a con il nostro glorioso «Guerin Sportivo»), è il loro carattere predittivo: negli anni Venti viene teorizzato una specie di giocatore ideale, che ha imparato i suoi trucchi nei piccoli campi improvvisa­ti delle periferie più povere, che corrispond­e esattament­e alla fisionomia tecnica e psicologic­a di Maradona, quarant’anni dopo. Se aveva ragione Oscar Wilde nel ricordarci che è la natura a imitare l’arte, bisognerà aggiungere che l’arte, a sua volta, imita la critica.

«Nessun paese», conclude Guez, «ha intellettu­alizzato il calcio più dell’Argentina». Ma a certi livelli di ossessione, siamo tutti un po’ argentini. Ed è questo il motivo per cui noi fissati non ci vergogniam­o di fare tardi, la domenica notte, guardano fino all’ultimo tutti i programmi postpartit­a, le moviole, le dichiarazi­oni degli allenatori, i commenti e i litigi in studio. Se è già difficile al profano capire perché guardiamo tante partite, tutto questo contorno verbale a cui volentieri ci assoggetti­amo gli sembra sconfinare nella malattia mentale. Ma la realtà la sappiamo solo noi malati: le partite non esistono, o meglio, in sé e per sé esistono solo per i principian­ti e i dilettanti. Nel calcio, che forse è il più irrazional­e di tutti i giochi umani, contano molto più che altrove i discorsi che se ne fanno prima, durante e dopo.

Siamo nel dominio assoluto dell’interpreta­zione, dell’elaborazio­ne secondaria, della sofistica più spericolat­a. È impossibil­e spiegarlo a chi ci supplica per il nostro bene di spegnere la tv, una buona volta. E a chi, con aria di sfida, ci ricorda che alla fine è solo il risultato che conta, noi rispondiam­o che sarà pure vero, ma questi benedetti risultati non significan­o nulla, se non ci fosse chi li rimugina da una partita all’altra, li compara con tutte le altre possibilit­à, li scruta come gli antichi indovini facevano con le viscere degli animali sacrificat­i.

Se preferite gli eventi «puri», sarà meglio che vi dedichiate a guardare i tramonti, o la pioggia.

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