Corriere della Sera - La Lettura
La musica della preistoria
Una scoperta recente ha fatto luce sull’evoluzione della laringe umana rispetto a quella delle scimmie antropomorfe: questo ha consentito l’affermazione di una musilingua. Un recente esperimento ha permesso di capire che la costruzione di uno strumento li
erectus
Perché l’uomo ha sviluppato l’attitudine a produrre musica e a ricavarne piacere? Come e quando è nata la musica? È solo un’invenzione culturale? Sappiamo che anche per Charles Darwin l’origine della musica era un grande mistero. Cercò comunque di spiegare le nostre facoltà di produrre ritmi e melodie con la selezione sessuale, in analogia con il canto di corteggiamento degli uccelli e di altri animali. Molti non sanno, invece, che Jean-Jacques Rousseau, un secolo prima, scrisse un saggio sulle origini della musica e del canto (nonché del linguaggio).
Il filosofo francese, pur non essendo un esperto di scienze naturali (nel suo testo attribuisce la modulazione dei suoni alla glottide invece che alle corde vocali), teorizza che la musica fu la prima forma di comunicazione tra gli esseri umani. In particolare, essa nacque come un linguaggio per trasmettere passioni ed emozioni, non per indicare e rappresentare le cose. Questo divenne importante «non appena un uomo riconobbe un altro uomo come un essere che sente, che pensa e che è simile a lui». La nuova capacità umana era quello che serviva per far nascere il primo vero organismo sociale, stratificato e gerarchico. Probabilmente Rousseau di stava pensando all’origine della musica fin dai tempi in cui aveva scritto il suo Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini. Le sue idee, come vedremo, trovano supporto negli studi più recenti.
Da allora, filosofi, umanisti e scienziati non hanno cessato di formulare ipotesi sulle origini della musica. Attualmente archeologi, antropologi, biologi, musicologi, psicologi e neuroscienziati stanno unendo le forze per sviluppare una grande teoria unificata che descriva la sua evoluzione culturale e biologica. Per cercare indizi
biologia.
biologica culturale anche nel nostro passato profondo, sono recentemente scesi in campo anche studiosi di paleoneurologia, archeologia cognitiva e... fisica.
Incominciamo dall’inizio la nostra breve storia sul rapporto tra gli umani e la musica. Circa 6 milioni di anni fa, un gruppo di primati africani incomincia a camminare stabilmente su due zampe. Quest’evento, originato dai cambiamenti climatici di quel periodo, avvia nei primi ominidi trasformazioni anatomiche e cognitive che fanno successivamente nascere un rigoglioso albero di esseri (diversamente) umani, capaci di comunicare sempre più efficientemente con una miscela di musicalità, vocalizzazioni e gesti del corpo sempre più espressivi.
Il «cespuglio» degli umani propriamente detti nasce in Africa più di due milioni di anni fa, quando un gruppo di quei primati bipedi diventa dipendente dall’uso di strumenti esterni e, naturalmente, dal fuoco. Questa «dipendenza», che forse era un adattamento alle ere glaciali del Pleistocene, cambiò drammaticamente lo
Le radici della musica affondano nella nostra cultura, ma anche nella nostra Perché — abbiamo le prove — la musica si sviluppa prima con l’evoluzione umana e poi attraverso l’evoluzione e tecnologica
stile di vita dei nostri antenati, la loro dieta, la socialità, il corpo e il cervello. Mentre gli umani fabbricavano gli strumenti, questi a loro volta fabbricavano gli umani. Il cervello crebbe da 600 grammi a un chilo e mezzo. Cambiavano i loro arti, l’apparato digestivo e, importante per la nostra storia, il sistema vocale. È stata recentemente annunciata su «Science» la scoperta di come l’anatomia della laringe umana si sia semplificata rispetto a quella che nel frattempo si era evoluta nelle scimmie antropomorfe per consentire loro di emettere le loro grida e grugniti. Gli umani potevano così produrre, in modo controllato, varietà sempre più complesse di timbri e tonalità.
Evolveva così una «musilingua» (miscela di suoni vocali e mimica, senza parole simboliche) che permetteva comunicazioni sociali in gruppi sempre più numerosi. Ci sono poi altri indizi di modifiche che riguardano il sistema cerebrale, forniti recentemente dall’archeologia cognitiva. In questi esperimenti, si fa indossare un caschetto neurale fNIRS (spettroscopia funzionale nel vicino infrarosso) a un archeologo mentre costruisce un’ascia bifacciale del Paleolitico (potrebbe sembrare semplice, ma ci vogliono anni per imparare la tecnica). Il risultato dell’esperimento (in cui con la diffusione di un piccolo fascio di luce infrarossa da parte della corteccia cerebrale si misura in modo non invasivo l’ossigeno indotto dall’attività delle reti neurali) è veramente intrigante. Si vede che la costruzione dello strumento litico richiede l’integrazione di funzioni cerebrali svolte nella corteccia temporale superiore coinvolte con l’informazione visuale, auditiva e sensorimotoria: lo stesso tipo di meccanismi cognitivi coinvolti nel suono del pianoforte. Homo erectus o heidelbergensis stavano già forgiando il cervello di Beethoven? Forse, ma per arrivare al grande musicista tedesco abbiamo bisogno di un nuovo colpo di scena.
Improvvisamente (almeno in termini geologici), circa 200 mila anni fa, noi Sapiens africani fummo gli unici, tra le specie umane che allora convivevano, a subire un’ulteriore, misteriosa metamorfosi anatomica. Il nostro cranio, originalmente di forma allungata come nei Neanderthal e negli umani più antichi, divenne perfettamente globulare. I paleoneurologi attribuiscono tale cambiamento morfologico (sia del cranio sia del cervello) all’espansione di componenti cerebrali coinvolte nella integrazione visuospaziale e nel coordinamento cervello-corpo-strumenti-ambiente. A queste trasformazioni viene associata l’emersione di nuove capacità cognitive, fra cui il pensiero simbolico. Si ipotizza che a questo punto, e solo in noi Sapiens, la musica si separa dal linguaggio (che evolve separatamente, anche con l’invenzione delle singole parole). I Neanderthal potrebbero essere quindi stati l’ultima specie a parlare cantando. Nello stesso periodo i Sapiens svilupparono tratti anatomici più gracili (per esempio una faccia piccola e piatta) e incominciarono a mantenere comportamenti giovanili anche in età adulta. Si tratta di caratteri tipici della cosiddetta sindrome da autodomesticazione, osservata anche in altre specie animali (vedi Tuniz/Tiberi Vipraio, «la Lettura» #298 del 13 agosto 2017).
È un processo che promuove un rallentamento dello
sviluppo biologico e una alterazione delle funzioni ormonali. Diminuiscono i livelli di cortisolo e aumentano quelli di serotonina e di altri neuroattivatori del piacere e della ricompensa, con un’accelerazione della pro-socialità. Inizia quello che viene chiamato Il Grande Gioco, che stiamo praticando ancora oggi, forse con ancora più entusiasmo che nel Paleolitico (vedi Tuniz, «la Lettura» #451 del 19 luglio 2020).
Il registro archeologico conferma che noi Sapiens intensificammo i riti collettivi che stimolano le emozioni e promuovono l’aggregazione in gruppi sociali sempre più ampi, legati da simboli, linguaggi e musica. La musica promuove la connessione tra le componenti più antiche del cervello — che ci ricompensano psicologicamente in occasione del consumo di cibo e nelle pratiche sessuali, le principali basi della nostra sopravvivenza — e quelle più recenti, che ci permetteranno di fare arte e scienza. In altre parole la musica ci ha insegnato a collegare le emozioni e le passioni con quelle che oggi consideriamo (antropocentricamente) le nostre capacità cognitive «superiori».
Come gli strumenti, anche la musica (pur essendo intangibile) interagisce, attraverso feedback circolari, con il nostro cervello e le nostre capacità cognitive. Quindi, mentre i Sapiens costruivano la musica, essa costruiva i Sapiens. Fabbricava soprattutto il loro organismo sociale, che ancora oggi vediamo all’opera, con la sua incredibile produzione sia di meraviglie che di nefandezze. Questo organismo è ora diventato una forza geologica, trasportandoci nell’Antropocene e, forse, nel Novacene (vedi Tuniz/Tiberi Vipraio, «la Lettura» # 415 del 10 novembre 2019).
Non sono disponibili registrazioni della colonna sonora del Paleolitico ma ci sono evidenze musicali di tipo materiale, almeno per il periodo più recente. Le più antiche evidenze archeologiche di strumenti musicali riguardano noi Sapiens e consistono in flauti fatti con ossa di aironi e altri grandi volatili dell’era glaciale o con avorio di mammut. Il flauto più noto è stato scoperto nella caverna di Hohle Fels, in Germania, con età al radiocarbonio di 43 mila anni. Siamo nel mezzo dell’ultima era glaciale e noi Sapiens siamo arrivati da poco in Europa, ma siamo già armati non solo di letali armi da lancio, ma soprattutto di parole e di musica. La musica aveva un ruolo importante in rituali sociali che si svolgevano in caverne decorate con arte figurativa, probabilmente sfruttando le proprietà acustiche delle caverne. Spesso ci si ornava anche con piccole veneri ipersessuate, come quella trovata a Hohle Fels, contemporanea con il flauto. Naturalmente, visto l’effetto della musica sulle componenti motorie della corteccia cerebrale, si ballava. Ci può sembrare incredibile che in mezzo a quei cataclismi climatici i nostri antenati potessero dedicare tanta energia ad attività apparentemente futili, non direttamente collegate con la loro sopravvivenza. A dire la verità, oggi noi non ci comportiamo in modo molto differente.
Riassumendo, la musica si sviluppa prima con l’evoluzione biologica umana e poi attraverso l’evoluzione culturale e tecnologica, con l’uso di innumerevoli strumenti. Siamo partiti facendo vibrare le nostre corde vocali e percuotendo diversi oggetti, incluse parti del nostro corpo, poi abbiamo soffiato attraverso tubi perforati di osso, avorio, legno e altri materiali, fino ad arrivare ai metalli e alla plastica. Abbiamo continuato pizzicando le corde di arpe e clavicembali e percuotendo le corde dei pianoforti. Siamo infine arrivati alla musica elettronica, basata sul suono sintetico, prodotto da oscillatori elettrici di frequenze o da generatori di impulsi, controllati prima da valvole, poi da transistor, circuiti integrati e software. Possiamo contare anche sull’Intelligenza artificiale, che ci promette nuove capacita di «creatività aumentata». Abbiamo sentito parlare di Aiva (Artificial intelligence virtual artist), il primo compositore virtuale di musica classica e sinfonica a essere iscritto all’equivalente francese della Siae. L’intelligenza artificiale è in grado di comporre brani originali basandosi sulle partiture dei più grandi compositori — come Mozart, Bach, Beethoven, Vivaldi — e potrebbe, in futuro, completare opere rimaste incompiute come la Sinfonia n.8 di Schubert.
A parte il piacere, che è già molto, cosa ci può offrire oggi la musica per il nostro benessere fisico e mentale? Con la migliore comprensione dei suoi fondamenti biologici e delle sue basi emotive si promuove l’uso della musica in un crescente numero di applicazioni terapeutiche, dalla cura della depressione e dell’insonnia alla sclerosi multipla e al Parkinson (Alice Mado Proverbio, Percezione e creazione musicale, Zanichelli, 2022).
E per quanto riguarda i grandi problemi del futuro? Visto che l’ineguaglianza tra gli uomini rimane ancora il più grande problema irrisolto, possiamo ritornare al pensiero di Rousseau. Il fatto che le radici della musica affondino non solo nella nostra cultura, ma anche nella nostra biologia, ci fa sperare che avremo sempre a disposizione la sua capacità di tenere assieme le persone, superando le barriere di lingua, etnia, età e genere. Speriamo che la musica ci possa aiutare a creare un futuro più armonioso di quello attuale, e non solo letteralmente.
gantesca mappa all’ingresso segnava l’antica Kroton — dove qualche secolo dopo sarei nato io — come il centro della Magna Grecia. Mi sono addentrato in quella sezione come sotto l’effetto di un’anestesia. Qualcuno, qualcosa dal mio passato mi stava cercando. Era un altro me, mi piace pensare, un me doppio, per l’appunto, che in tutti quegli anni di fughe irrequiete non aveva mai smesso di seguirmi.
VITO TETI — È il corrispettivo di un io plurimo: l’emigrante lascia nel luogo della sua casa una parte del suo io, la sua ombra. Il Paese due diventa il luogo al quale sono rivolti sogni, desideri, paure, pensieri di coloro che non sono partiti. E il Paese lasciato diventa un’ombra perduta. Lui stesso, l’emigrante, diventa un doppio: continua a sentirsi parte del Paese uno, ma non ritroverà mai l’antica ombra. Così è condannato alla nostalgia.
GAY TALESE — Credo che la nostalgia si erediti, ma non si trasmetta. Ho avuto la percezione di cosa volesse dire essere italiano attraverso i miei genitori ma, da figlio, ho acquisito il mio personale concetto di esserlo solo dopo avere rimosso la loro versione. Non ho costruito la mia italianità attraverso la lettura — d’altronde non c’era molto da leggere al riguardo — e il motivo per il quale ho scritto, per esempio, Ai figli dei figli (Rizzoli, 1992, ndr), la storia di mio padre e della sua famiglia, dei rimasti e dei partiti, è perché volevo imparare, e di conseguenza scrivere, ciò che non avevo mai letto prima. Ricordo che una sera a cena, quando presi distrattamente una pagnotta e la rimisi capovolta nel cestino, mio padre si infuriò e, senza dare alcuna spiegazione, rimise la pagnotta nel verso giusto.
VITO TETI — In Calabria, per tradizione, il pane non può essere poggiato sulla tavola dalla parte tonda: raffigura, simbolicamente, il volto di Dio. Il fatto è che, vedete, rimasti e partiti non possono fare a meno gli uni degli altri. Chi resta fermo si sente in viaggio e chi parte, in qualche modo, si sente rimasto. La vita è sempre altrove: la fuga, l’erranza, l’inquietudine sono tratti caratterizzanti dell’antropologia dei migranti del passato. Ho visto molti paesi abbandonati o abitati da pochi o da un solo abitante. Quasi tutti mi hanno raccontato del loro obbligo morale di vegliare il luogo natio, come si fa per una persona cara. D’altronde siamo il luogo in cui siamo nati e cresciuti, ma anche i luoghi da cui siamo fuggiti e che a volte abbiamo odiato, per urgenza d’esistere al di là del perimetro noto.
MAURIZIO FIORINO — Per me è impossibile non sentirmi calabrese. Intendo dire che il senso di inquietudine che mi abita dentro, da sempre, non è che il riflesso del luogo in cui sono nato. Un luogo doppio, come dicevamo prima: nei racconti che ci facevano a scuola, Crotone è stata la perla della Magna Grecia. Nella realtà, però, era — ed è — una città semideserta con gli scheletri di una fabbrica in disuso dagli anni Novanta, che giace, mostruosa, ancora all’ingresso della città. I ragazzi, lì, ci portano le ragazze a fare l’amore, tra il letame e la ruggine, davanti al mare. Questo contrasto — bello e brutto, alto e basso, mito e decadenza — fa parte del mio essere in fondo rimasto, anche se altrove. In Italia ci sono ritornato qualche anno fa per prendermi cura di mio padre malato (è interessante notare come, nella nostra discussione sulla restanza, c’entrino sempre i nostri padri). Oggi è come se la mia vita fosse divisa a metà: so con certezza che una parte di me è rimasta a New York.
VITO TETI — Certo, si resta e si viaggia nel tempo, da fermi, anche nelle metropoli. Gli autori «restanti» hanno restituito i sotterranei, i labirinti della città, ma anche le oscurità, le ombre, il doppio. E. T. A. Hoffmann, Edgar Allan Poe, Fëdor Dostoevskij, Franz Kafka, Sigmund
Freud danno evidenza all’alterità che è dentro di noi. Un paese, una città, una periferia, non sono un groviglio casuale di abitazioni. Sono un artefatto complesso di architetture, di strade, case dove gli abitanti convivono con i loro santi protettori, i loro defunti, le loro memorie. Nel paese dove ho vissuto si apparteneva a una casa, quando la casa si svuotava era la fine di tutto.
GAY TALESE — Dieci anni dopo la guerra, nel 1955, mentre facevo il soldato in Germania, ho deciso di visitare il paese di mio padre. A Maida ho rivisto gran parte dei vestiti che mandavamo dall’America. Le taglie erano imperfette eppure, mentre abbracciavo il tessuto ruvido della giacca che era stata di mio padre, mi sono sentito ricollegato al mio passato e alleato con quegli «stranieri» la cui vita era stata lontanamente intrecciata alla mia. Dopo quel viaggio pensai alle conseguenze di chi parte per sempre: salire su un treno, navigare l’oceano e non tornare mai più. Le vite delle generazioni successive sono cambiate per sempre da questo unico viaggio. Se non fosse stato per l’irrequietezza di mio padre, per la sua natura e caparbietà, forse sarei finito a lavorare nei campi del Sud Italia con mio cugino, aspettando la nascita di un figlio.
VITO TETI —Io posso dire che, pur con tutti i miei viaggi, con tutte le mie vite altrove, con tutto il mio errare, alla fine sono rimasto. Il paese che ho visto pieno, adesso è vuoto. I compagni che partivano pensando a un ritorno, non sono più tornati. Le case e le strade sono deserte. Il luogo che volevo cambiare mi ha, forse, cambiato. L’esilio non l’ho scelto io: mi è arrivato a casa.
MAURIZIO FIORINO — Forse esilio è proprio la parola giusta. Anche io mi sento esiliato, ma in uno spazio mobile, sospeso, senza confini. Ogni tanto capita di sentire la nostalgia del mare, il suo rumore, ma è una nostalgia momentanea, che passa. Il mare è parte di un cammino, di un andare. I Bronzi di Riace, d’altronde, sono potuti arrivare solo perché, ad attenderli, c’era qualcuno. Si arriva semplicemente perché c’è chi è rimasto, e ti accoglie. Insomma, chi parte è mosso dalla stessa inquietudine di chi resta e, se vogliamo usare uno scioglilingua, resta anche chi parte e parte anche chi rimane fermo.
GAY TALESE — Mio padre odiava il mare. Sono convinto che la sua avversione fosse collegata con la fanciullezza. Lo sentii spesso parlare della costa calabrese come di un luogo di malaugurio. Una volta lo ascoltai lamentarsi di non avere chiuso occhio durante la notte perché era stato disturbato da un rumore simile a un ululato di lupi che gli aveva ricordato una terribile notte del 1914, in cui il suo paese era stato sconvolto da rumori simili. Al mattino, gli abitanti avevano scoperto che l’acqua del lago era diventata rossa. Neanch’io ho mai saputo nuotare, né ho mai imparato a farlo.
VITO TETI — Papà è emigrato che io avevo 18 mesi e tornò in paese sette anni dopo. Giocavo con alcuni compagni quando vidi fermarsi una macchina. Scesero alcune persone che non avevo mai visto. Mia madre poggiò il secchio dell’acqua a terra e corse ad abbracciare uno di quegli stranieri. «Vedi come è cresciuto Vito nostro», gli disse. Lo guardai per giorni, come se a un figlio fosse nato il padre. Lo seguivo, quasi per riappropriarmene immediatamente e definitivamente, dovunque andasse. Forse cominciai da allora a credere all’impossibilità dei rapporti duraturi, a pensare che i legami stabili sono soltanto quelli mitizzati, a distanza. Dei trenta ragazzi che frequentavano le elementari, soltanto tre o quattro restammo lì, gli altri seguirono il padre nel «paese di Toronto». Mia madre, semplicemente, disse che era meglio restare in paese. Così restammo.
Quelli che lasciano il loro paese sono mossi dalla stessa inquietudine di coloro che vegliano su villaggi che si spopolano sempre più. Si viaggia e si resta anche nel tempo, da fermi. E ci si costruisce una realtà doppia: il qui e il là