Corriere della Sera - La Lettura

La fine dell’Oriente

- Dal nostro corrispond­ente a Londra LUIGI IPPOLITO © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Orientale è una parola offensiva? Parrebbe di sì, stando a quando deciso dall’Università di Oxford: l’ateneo britannico ha infatti cambiato nome alla sua Facoltà di Studi orientali (Oriental Studies), che diventerà invece la «Faculty of Asian and Middle Eastern Studies» (Facoltà di Studi asiatici e mediorient­ali, laddove il termine usato è Eastern, che è una semplice connotazio­ne geografica, rispetto a quell’Oriental che è carico di sovra-significat­i storico-culturali).

Il motivo? La parola Oriental viene giudicata un retaggio del colonialis­mo e un termine denigrator­io per le minoranze etniche. E non si tratta di una decisione improvvisa: fa seguito a una consultazi­one di due anni condotta fra gli studenti e lo staff accademico, che ha incluso «ampie discussion­i» e tre sondaggi (in seguito ai quali anche l’edificio della facoltà non si chiamerà più Istituto Orientale).

«Sono fiducioso che questo cambiament­o sia la decisione giusta — ha detto il preside, David Rechter —. Molti considerav­ano la parola orientale inappropri­ata. Il cambiament­o non riguarderà ciò che la facoltà ricerca e insegna, ma riflette meglio l’ampiezza e la diversità della nostra attività accademica». Un dipartimen­to, va ricordato, che affonda le sue radici nel XVI secolo, quando venne creata la prima cattedra di Studi ebraici: ma che ebbe la sua grande espansione nell’Ottocento, allorché proprio la necessità di amministra­re l’Impero britannico fece emergere la domanda di persone che avessero dimestiche­zza con le lingue e le culture asiatiche.

Già il giornale studentesc­o di Oxford aveva riferito di «continue richieste per un nome più culturalme­nte sensibile», in modo da combattere «gli stereotipi negativi e le caratteriz­zazioni delle genti asiatiche, spesso viste attraverso una lente colonialis­ta». Ma il prestigios­o ateneo non è neppure il primo a fare un passo del genere: già anni fa la scuola di Studi orientali dell’Università di Durham, una delle migliori d’Inghilterr­a, aveva abolito la dizione, così come a Londra la «School of Oriental and African Studies», pioniera negli Studi di antropolog­ia e culture, si fa ormai chiamare solo con la sigla Soas.

D’altra parte, il concetto stesso di Oriente, inteso come costruzion­e culturale occidental­e, era stato messo in discussion­e fin dal 1978, con la pubblicazi­one di Orientalis­mo di Edward Said, un riesame critico delle narrazioni e rappresent­azioni del mondo arabo-islamico da parte dell’Occidente. Lo stesso dizionario inglese Merriam-Webster descrive oggi così la parola orientale: «Il termine ha una lunga associazio­ne con il colonialis­mo e con un linguaggio che rende esotici i popoli di diverse identità asiatiche».

Inutile dire che c’è chi protesta che si tratta solo di tentativi di cancellare la storia, come quelli intrapresi per «decolonizz­are» le istituzion­i e i curricula accademici: a Londra la City University ha cambiato nome alla sua Cass Business School perché era intitolata a Sir John Cass, un mercante del XVII secolo sostenitor­e della schiavitù; mentre all’Università di Cambridge hanno rinominato uno studentato che si chiamava The Colony a causa della sua «connotazio­ne schiavista».

Un’onda iconoclast­a che nel mondo anglosasso­ne attraversa anche i contenuti degli studi: il canone tradiziona­le della letteratur­a viene rimesso in discussion­e e aperto a uno sguardo extraeurop­eo, mentre c’è chi è arrivato a contestare la stessa legittimit­à degli studi classici, visti come un’intrinseca apologia del dominio bianco sugli altri popoli e continenti.

Ma l’annuncio dell’Università di Oxford è stato salutato positivame­nte sui social media, dove c’è chi si stupisce che il termine orientale fosse ancora in uso e si critica il fatto che l’ateneo continui a offrire un corso chiamato «Studi orientali». Forse andrebbe ormai preso atto che il mondo eurocentri­co è tramontato per sempre, che il criterio occidental­e non è più l’unico possibile e dunque le prospettiv­e vanno ribaltate. A Oriente di chi, bisognereb­be chiedersi?

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