Corriere della Sera - La Lettura
La fine dell’Oriente
Orientale è una parola offensiva? Parrebbe di sì, stando a quando deciso dall’Università di Oxford: l’ateneo britannico ha infatti cambiato nome alla sua Facoltà di Studi orientali (Oriental Studies), che diventerà invece la «Faculty of Asian and Middle Eastern Studies» (Facoltà di Studi asiatici e mediorientali, laddove il termine usato è Eastern, che è una semplice connotazione geografica, rispetto a quell’Oriental che è carico di sovra-significati storico-culturali).
Il motivo? La parola Oriental viene giudicata un retaggio del colonialismo e un termine denigratorio per le minoranze etniche. E non si tratta di una decisione improvvisa: fa seguito a una consultazione di due anni condotta fra gli studenti e lo staff accademico, che ha incluso «ampie discussioni» e tre sondaggi (in seguito ai quali anche l’edificio della facoltà non si chiamerà più Istituto Orientale).
«Sono fiducioso che questo cambiamento sia la decisione giusta — ha detto il preside, David Rechter —. Molti consideravano la parola orientale inappropriata. Il cambiamento non riguarderà ciò che la facoltà ricerca e insegna, ma riflette meglio l’ampiezza e la diversità della nostra attività accademica». Un dipartimento, va ricordato, che affonda le sue radici nel XVI secolo, quando venne creata la prima cattedra di Studi ebraici: ma che ebbe la sua grande espansione nell’Ottocento, allorché proprio la necessità di amministrare l’Impero britannico fece emergere la domanda di persone che avessero dimestichezza con le lingue e le culture asiatiche.
Già il giornale studentesco di Oxford aveva riferito di «continue richieste per un nome più culturalmente sensibile», in modo da combattere «gli stereotipi negativi e le caratterizzazioni delle genti asiatiche, spesso viste attraverso una lente colonialista». Ma il prestigioso ateneo non è neppure il primo a fare un passo del genere: già anni fa la scuola di Studi orientali dell’Università di Durham, una delle migliori d’Inghilterra, aveva abolito la dizione, così come a Londra la «School of Oriental and African Studies», pioniera negli Studi di antropologia e culture, si fa ormai chiamare solo con la sigla Soas.
D’altra parte, il concetto stesso di Oriente, inteso come costruzione culturale occidentale, era stato messo in discussione fin dal 1978, con la pubblicazione di Orientalismo di Edward Said, un riesame critico delle narrazioni e rappresentazioni del mondo arabo-islamico da parte dell’Occidente. Lo stesso dizionario inglese Merriam-Webster descrive oggi così la parola orientale: «Il termine ha una lunga associazione con il colonialismo e con un linguaggio che rende esotici i popoli di diverse identità asiatiche».
Inutile dire che c’è chi protesta che si tratta solo di tentativi di cancellare la storia, come quelli intrapresi per «decolonizzare» le istituzioni e i curricula accademici: a Londra la City University ha cambiato nome alla sua Cass Business School perché era intitolata a Sir John Cass, un mercante del XVII secolo sostenitore della schiavitù; mentre all’Università di Cambridge hanno rinominato uno studentato che si chiamava The Colony a causa della sua «connotazione schiavista».
Un’onda iconoclasta che nel mondo anglosassone attraversa anche i contenuti degli studi: il canone tradizionale della letteratura viene rimesso in discussione e aperto a uno sguardo extraeuropeo, mentre c’è chi è arrivato a contestare la stessa legittimità degli studi classici, visti come un’intrinseca apologia del dominio bianco sugli altri popoli e continenti.
Ma l’annuncio dell’Università di Oxford è stato salutato positivamente sui social media, dove c’è chi si stupisce che il termine orientale fosse ancora in uso e si critica il fatto che l’ateneo continui a offrire un corso chiamato «Studi orientali». Forse andrebbe ormai preso atto che il mondo eurocentrico è tramontato per sempre, che il criterio occidentale non è più l’unico possibile e dunque le prospettive vanno ribaltate. A Oriente di chi, bisognerebbe chiedersi?