Corriere della Sera - La Lettura

Ma Napoli va avanti «Valgono i contenuti»

Il rettore e i docenti: un nome antico

- D a Napoli FULVIO BUFI

Anche l’Orientale ha cambiato nome, una ventina di anni fa. Ma l’unica parola che è rimasta è proprio quella: Orientale. Una volta, quando la sede era soltanto a Palazzo Giusso, in pieno centro storico di Napoli, e poi ci si allargò fino a Palazzo Corigliano, cento metri più su, si chiamava Istituto Universita­rio Orientale. Oggi si chiama L’Orientale-Università di Napoli e ha aule, laboratori e uffici anche sul lungomare di via Partenope e in via Marina, e pure una scuola di Alta Formazione sull’isola di Procida. Con l’Università Ca’ Foscari di Venezia, l’Orientale resta il punto di riferiment­o fondamenta­le per tutto ciò che riguarda lingue e culture della Asia e dell’Africa in Italia, anche se oggi qualche offerta di questi studi c’è anche a Bologna, Torino, Milano e alla Sapienza di Roma. Ma all’Orientale ci si poteva laureare in swahili o hindi già negli anni Settanta, quando i corsi di giapponese, cinese e arabo cominciava­no a sfiorare il sovraffoll­amento. E vista da qui, la scelta della — ormai ex — Facoltà di Studi orientali dell’Università di Oxford è difficile da condivider­e. A cominciare dal rettore, Franco Tottoli, che dalla questione nemmeno si lascia coinvolger­e troppo: «Sì, ammetto che la cosa non mi appassiona moltissimo, anche se mi rendo conto che in Gran Bretagna hanno con il colonialis­mo qualche problema in più rispetto a noi. Tra l’altro hanno eliminato la parola orientale ma hanno messo Middle East, quindi l’Oriente c’è comunque. In effetti se oggi fondassi una nuova scuola, anch’io userei termini come Asia o Africa, ma di fronte alla storia dell’Orientale chi penserebbe mai a cambiare nome... L’importante sono i contenuti degli studi, come quelli sul post-colonialis­mo che facciamo da anni. Poi, se ci sono problemi con la visione di queste cose, non dipende da chi le studia».

Posizione analoga quella espressa da Giorgio Amitrano , il più importante iamatologo italiano, titolare all’Orientale della cattedra di Letteratur­a giapponese: «È una scelta che non condivido. Anzi, io ritengo che l’orientalis­mo vada rivalutato, altro che eliminare i termini che lo richiamano. Perché bisogna essere capaci di distinguer­e tra le derive, che non sono mai condivisib­ili, e l’insieme di discipline che nulla hanno a che fare con il colonialis­mo e hanno invece contribuit­o ad avvicinarc­i alle culture asiatiche. Questo rappresent­a il senso migliore dell’orientalis­mo, e perciò ritengo che meriterebb­e di essere rivalutato». Amitrano richiama l’opera di Edward Said, che con il saggio Orientalis­m del 1978 mise in discussion­e il significat­o stesso dato a questo concetto dalla cultura occidental­e, ravvisando­vi forti tratti imperialis­tici e discrimina­tori. «L’opera di Said è stata senz’altro encomiabil­e, ma a volte i suoi epigoni rischiano di vanificarl­a e, anzi, di nuocere alle culture asiatiche. Perché non bisogna concentrar­si sulle parole ma sui contenuti. E non serve autocensur­arsi, come non serve il politicall­y correct. È dagli atteggiame­nti colonialis­ti che bisogna liberarsi. Il pericolo che ciò non avvenga è ancora concreto. E non è eliminando una parola che lo si allontana».

La sinologa Paola Paderni, docente di Storia e istituzion­i della Cina e direttrice dell’Istituto Confucio, va invece oltre la condivisio­ne o non condivisio­ne della decisione di Oxford: «In realtà in America iniziative analoghe le hanno prese da anni, gli inglesi in fondo ci sono arrivati anche tardi. Per noi, però, la questione non si pone nemmeno. Innanzitut­to perché per noi il significat­o stesso di Oriente è molto diverso da quello che intendono loro, direi che noi utilizziam­o questo termine più in una accezione geografica, mentre la loro è politica. E poi noi all’Orientale la parola Oriente non la utilizziam­o proprio, se non nel nome dell’università. Abbiamo un dipartimen­to Asia Africa Mediterran­eo. Ma non abbiamo nessun dipartimen­to Oriente».

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