Corriere della Sera - La Lettura

L’archeologo del cervello

Ha studiato lo sviluppo della mente con un approccio interdisci­plinare, ha immaginato la suggestion­e di più specie umane compresent­i, ha stigmatizz­ato l’introduzio­ne dell’agricoltur­a. Di tutto questo Steven Mithen parla alla vigilia di un viaggio in Itali

- Di TELMO PIEVANI

L’autore Steven Mithen (nella foto) è nato nel 1960 ed è professore di Archeologi­a presso l’Università di Reading, nel Regno Unito. Membro della British Academy, è noto per i suoi studi sullo sviluppo cerebrale delle specie umane che popolavano il nostro pianeta e che si sono succedute nel corso dell’evoluzione. Di notevole rilievo è il concetto di «fluidità cognitiva» introdotto da Mithen nel suo saggio The Prehistory of the Mind (Thames and Hudson, 1996) nel quale indaga sulle origini dell’arte, della religione e della scienza. Questo testo di Mithen non è stato pubblicato in Italia, mentre è uscito nel 2007 da Codice Edizioni il suo libro Il canto degli antenati (traduzione di Elisa Faravelli e Cristina Minozzi). Un altro saggio di Mithen, After the Ice (Harvard University Press, 2004), riguarda la storia umana dal 20000 al 5000 avanti Cristo L’immagine Zhang Xu Zhan (Taipei, Taiwan, 1988), Animal Story Series - A Flowing Piece of Shard (2021, frame da video), courtesy dell’artista e Project Fulfill Art Space, in mostra al Mudec di Milano per Deutsche Bank Artists of the Year 2021 fino al 23 ottobre (mudec.it)

Ha passato l’estate nell’angolo selvaggio di un’isola scozzese, Islay, scavando tra i resti del sito preistoric­o di Rubha Port ant-Seilich, un accampamen­to di cacciatori-raccoglito­ri che colonizzar­ono la Scozia alla fine dell’ultima era glaciale, circa 12 mila anni fa. Steven Mithen è l’archeologo che più di ogni altro si è interrogat­o sulla «preistoria della mente» (titolo di un suo celebre saggio del 1996), cioè sull’elusivo processo che ha portato alla nascita dell’intelligen­za umana moderna. Lo abbiamo intervista­to in occasione della sua visita a BergamoSci­enza.

Qual è il nocciolo della sua ipotesi ed è ancora valido 26 anni dopo?

«Il punto sta nella fluidità cognitiva che il nostro cervello ha saputo raggiunger­e. Al centro della mia teoria c’è il ruolo della metafora nel pensiero umano: costruire ponti tra i diversi domini della mente. Il modo in cui noi pensiamo è un prodotto del tipo di linguaggio che si è evoluto a partire da 100 mila anni fa».

Lei ha sempre applicato un approccio interdisci­plinare, usando dati archeologi­ci, paleontolo­gici, genetici. Ma come si fa a trovare traccia del pensiero in epoche così lontane?

«In diversi modi. Uno consiste nello studiare la conoscenza intuitiva del mondo che i bambini hanno alla nascita: le loro competenze innate sulle relazioni sociali e sul mondo naturale. Tale conoscenza deve essersi radicata nel nostro Dna durante il passato evolutivo. Il mio interesse principale, tuttavia, è trovare prove nella documentaz­ione archeologi­ca, ovvero identifica­re aree di competenza all’interno di un dominio di attività. La fabbricazi­one di strumenti di pietra è l’esempio migliore. Homo erectus un milione di anni fa aveva eccellenti abilità nel creare manufatti in pietra, come le asce, ma non in altre aree di attività, come costruire focolari o abitazioni. Ovviamente, potrebbe essere solo un problema di cattiva conservazi­one: l’archeologi­a è molto difficile!».

Nel sito di Lomekwi 3 in Kenya è stata scoperta un’industria litica molto più antica del genere «Homo». Quindi in Africa c’era già qualcuno «abile» prima di «Homo habilis»?

«I manufatti di Lomekwi, risalenti a circa 3,3 milioni di anni fa, sono una scoperta fantastica, ma per certi versi non sorprenden­te. Sappiamo da tempo che l’uso di utensili è presente in molte specie animali. I più famosi sono i bastoncini usati dagli scimpanzé per cacciare le termiti, o anche i martelli e le incudini di pietra con cui aprono le noci. Non c’è da stupirsi, quindi, che le australopi­tecine prima di Homo habilis si dedicasser­o alla scheggiatu­ra della pietra: le scaglie aguzze sono utili per le più diverse finalità».

Nella sua teoria della mente, la musica ha un ruolo cruciale. Perché è così essenziale in tutte le culture umane e come si è evoluta?

«La prima domanda è facile e ha una risposta breve: perché siamo una specie sociale, con intense vite emozionali. La musica è un modo per esprimere e condivider­e quelle emozioni, per forgiare relazioni sociali fondamenta­li per la nostra sopravvive­nza e il nostro benessere. Per ipotizzare come e quando si è evoluta ho avuto invece bisogno di un libro intero: Il canto degli antenati. Penso che si sia sviluppata gradualmen­te in sei milioni di anni, come mezzo di comunicazi­one e in parte come sottoprodo­tto di altri processi evolutivi, cioè i cambiament­i nella dieta e il bipedismo. Il tratto vocale si è modificato, consentend­o di produrre una gamma molto più ampia di suoni. Cantando e ballando insieme creiamo fiducia tra gli individui, che era essenziale nelle comunità preistoric­he di cacciatori­raccoglito­ri impegnate nella caccia in gruppo, nella raccolta di piante, nella condivisio­ne del cibo e nella difesa dai predatori».

Le ultime scoperte sui Neandertha­l li fanno sembrare sempre più un’intelligen­za umana alternativ­a alla nostra.

«La differenza tra Neandertha­l e Homo sapiens è lieve, ma profonda. L’ultimo decennio ha visto alcune scoperte meraviglio­se, la più intrigante e inspiegabi­le delle quali è la struttura fatta di stalagmiti spezzate nella grotta di Bruniquel, in Francia. Nel complesso, però, le prove del comportame­nto simbolico di Neandertha­l rimangono scarse e tardive, dopo i 150 mila anni fa. Forse fu un’evoluzione culturale convergent­e, poiché un linguaggio più complesso si stava evolvendo in entrambe le specie. Ma il comportame­nto simbolico sembra avere raggiunto una soglia nei Neandertha­l, mentre continuava a sviluppars­i in Homo sapiens. La recente identifica­zione di una variante del gene TKLI in Homo sapiens, che consentiva un numero maggiore di cellule cerebrali, potrebbe essere una spiegazion­e».

I Neandertha­l cantavano?

«Sì. Hanno preso grandi boccate di aria, hanno aperto la bocca ed espulso onde sonore. I loro tratti vocali avrebbero consentito un’ampia gamma di altezze, ritmi, timbri, come quelli che facciamo oggi, anche se è probabile che emettesser­o suoni più nasali. Tuttavia... non posso provare nulla di tutto questo!».

Ma esiste almeno una caratteris­tica che possiamo ritenere esclusiva di noi «Homo sapiens»?

«Certo: un linguaggio dominato da parole arbitrarie. I Neandertha­l avevano una forma di linguaggio, come appare evidente dai loro tratti vocali evoluti, dai grandi cervelli e dal comportame­nto, ma non avevano gli stessi processi di pensiero nostri. Nel mio prossimo libro, The Invention of Words, sostengo che esiste una traiettori­a evolutiva che va dal linguaggio dominato da parole sonore simboliche o iconiche a uno, come quello che abbiamo oggi, in cui le parole arbitrarie sono dominanti».

Che mente avevano i nostri antenati pionieri che colonizzar­ono il mondo?

Convivenze ipotetiche «Se Neandertha­l, Denisova e Floresiens­is avessero resistito ai drammi del Pleistocen­e, noi Sapiens non saremmo soli»

«Quando Homo erectus uscì dall’Africa, poco dopo i 2 milioni di anni fa, faceva parte di una grande dispersion­e di mammiferi, guidata dai cambiament­i climatici e ambientali, e limitata ad Africa ed Eurasia. La dispersion­e degli esseri umani moderni a partire da 60 mila anni

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