Corriere della Sera - La Lettura

L’anima del cristianes­imo vive nel corpo e nei sensi

Parla il teologo Pablo d’Ors, ospite al festival Torino Spirituali­tà: oggi i giovani si allontanan­o dalla fede soprattutt­o perché è andata perduta la dimensione materiale

- Di MARCO RIZZI

Nel corso del festival Torino Spirituali­tà lo scrittore e teologo spagnolo Pablo d’Ors interverrà sull’episodio evangelico del Noli me tangere, in cui Gesù risorto intima a Maria Maddalena di non toccarlo. Inoltre terrà un dialogo con Paolo Scquizzato, teologo come lui, sul tema della meditazion­e. Lo abbiamo intervista­to.

Nei Vangeli il corpo materiale di Gesù gioca un ruolo decisivo, ad esempio nell’episodio dell’emorroissa, quando sente di essere stato toccato e che il potere che lo custodiva è scaturito da lui. Ancora oggi, il rito centrale della fede cristiana si celebra attorno alla memoria del corpo e del sangue del Salvatore, della materialit­à della sua esistenza. L’attuale tendenza alla virtualizz­azione della realtà, che implica la «smateriali­zzazione» delle relazioni, non costituisc­e un rischio essenziale per il cristianes­imo?

«Il cristianes­imo ha una dimensione fisica e corporea inalienabi­le, come testimonia­no sia la cosiddetta resurrezio­ne della carne sia, soprattutt­o, l’Eucaristia, come anche lei osserva. Ci sono scienziati autorevoli che hanno affermato che la materia in definitiva non esiste e che tutto è sempliceme­nte energia informata. Tuttavia, anche se la materialit­à dell’intero universo sta in un chicco di riso, come è stato detto, è certo che non si può fare a meno di questo supporto informativ­o, chiamiamol­o così, anche se minimo. Una spirituali­tà che finisca per fare a meno del corporeo, a mio avviso, degenerere­bbe in spirituali­smo e certamente cesserebbe di essere cristiana. La contemplaz­ione, invece, non può essere raggiunta senza la percezione o, in altre parole, il senso soprannatu­rale non è altro che la pienezza dei sensi naturali».

Uno dei temi più caratteris­tici del cristianes­imo è legato all’idea dei «sensi spirituali», cioè che l’esperienza autentica del contatto con Dio arriva a coinvolger­e tutte le nostre facoltà di percezione, così come nella vita quotidiana tramite i sensi sperimenti­amo e comunichia­mo con l’altro: l’estasi dei grandi mistici non implica la cancellazi­one dell’esperienza sensibile, ma la trasferisc­e su un piano diverso. Si può recuperare questa tradizione e, se sì, come declinarla oggi? La pratica della meditazion­e, su cui lei interverrà a Torino Spirituali­tà, è il luogo dove rintraccia­re questo percorso?

«Sono molto interessat­o al tema dei “sensi spirituali”, proprio perché sono convinto che la percezione sia la porta d’accesso alla contemplaz­ione. Potrei dirlo in modo più provocator­io: la spirituali­tà non è altro che la consapevol­ezza della vita naturale. Non si tratta solo di recuperare questa “sensoriali­tà”, propria della vera sacramenta­lità cristiana; il punto decisivo è che, senza di essa, il cristianes­imo è perduto. A mio avviso, buona parte dell’allontanam­ento dalla fede da parte delle nuove generazion­i è dovuto a questa perdita di corporeità. Secondo me, una Chiesa che non medita, cioè che non medita in silenzio, ha poco futuro. Meditare significa portare la mente al cuore, e solo dal cuore si può intraveder­e il mistero di ciò che chiamiamo Dio».

Torino Spirituali­tà ha scelto come tema «Pelle. La superficie profonda». Nella «Genesi», dopo il peccato, Dio avverte l’uomo e la donna delle «tuniche di pelle», affinché possano coprire la loro nudità e affrontare la vita nel mondo. Generalmen­te, l’esegesi considera le «tuniche di pelle» una metafora del corpo, ma la «pelle» ha una sua specificit­à, è il primo elemento con cui l’essere umano si presenta all’altro. Nel bene e nel male: basta pensare a quanto il «colore» della pelle abbia significat­o nelle relazioni tra gli esseri umani: si dà, a suo avviso, un’«antropolog­ia della pelle»?

«Non saprei dire che cosa possa significar­e una “antropolog­ia della pelle”, personalme­nte ho perso da tempo l’interesse per le questioni strettamen­te filosofich­e. Ma so che il razzismo esiste ancora e che dobbiamo lavo

rare con tutte le nostre forze per sradicarlo. Non lo sradichere­mo mai con la sola buona volontà. Né lo sradichere­mo mai con le buone intenzioni o con una migliore comprensio­ne razionale. La scoperta che siamo tutti uguali è una scoperta di natura spirituale, il che significa che solo attraverso la coltivazio­ne dello spirito, accurata e sistematic­a, potremmo arrivare a una civiltà in cui il razzismo appartenga al passato».

Uno dei suoi libri di maggior successo è una «Biografia della luce», dove mostra che abbiamo bisogno di qualcosa che illuminand­oci ci permetta di ritrovare la direzione di un cammino e il senso del nostro io. Invece il corpo, la pelle, è opacità, contrasto, ma si definisce e si vede solo in controllo, grazie alla luce, ma in opposizion­e, per così dire, ad essa. Lei ha attraversa­to il deserto e praticato il silenzio: eppure la nostra salvezza passa necessaria­mente — oltre che dal corpo — anche dal caos e dalla condivisio­ne della vita comune, dal rumore delle grandi città... Come tenere insieme questi aspetti così contraddit­tori?

«Solo il contraddit­torio è reale, diceva la mia venerata Simone Weil. La dottrina cattolica, d’altra parte, ama tremendame­nte le contraddiz­ioni. Sostiene, ad esempio, che Dio è uno e trino. Allo stesso modo, sostiene che Cristo è vero Dio e vero uomo. E sostiene — questi sono esempi più che sufficient­i — che Maria è vergine e madre. Forse è che gli opposti non devono essere visti in termini di disgiunzio­ne (aut aut, o/o), ma in termini di complement­arità (et et, e/e). La luce, invece, non è altro che un’ombra illuminata. Intendo dire che tendiamo ad avere un’idea molto semplicist­ica dell’illuminazi­one, quando l’esperienza dimostra (e questo è sostenuto anche dal Credo cattolico) che l’ascesa al paradiso è preceduta da una discesa all’inferno».

Lei è sacerdote cattolico. I più giovani, i «nativi digitali», sembrano vivere in una condizione in cui reale e virtuale si sovrappong­ono e si corrispond­ono: una tale situazione può essere un «luogo teologico» per l’annuncio del Vangelo?

«È una domanda difficile, perché per rispondere in modo esauriente dovremmo discutere della realtà del virtuale e del carattere illusorio di ciò che chiamiamo reale. Ciò che sta accadendo oggi nel mondo digitale ci costringer­à, ci sta già costringen­do, a ripensare tutto, a considerar­e tutto in modo diverso, compreso il cristianes­imo, il che è affascinan­te. Da parte mia, ad esempio, sostengo che oggi Cristo non deve essere il punto di partenza dell’evangelizz­azione, ma piuttosto il punto di arrivo. In ogni caso, più che di luoghi teologici, dovremmo parlare di spazi teofanici. La teologia, in fondo, ha un ruolo secondario. Ciò che è essenziale è l’esperienza personale. Tutto ciò che non passa attraverso una validazion­e vitale viene solitament­e ridotto a ideologia. Ed è molto triste che la verità sia ridotta a dottrina».

Il Concilio di Trento ha disegnato il volto del cattolices­imo proprio attorno alla coppia di «dottrina e disciplina», cioè la fissazione dei contenuti dottrinali del cristianes­imo nel catechismo e delle norme morali in precetti e comportame­nti obbligati. Questo schema non funziona più nella nostra epoca, in cui libertà e desiderio sono diventati il paradigma attorno a cui si struttura la vita. Non le chiedo certo una soluzione alternativ­a, bensì quale, secondo lei, potrebbe essere una via perché la Chiesa cattolica accetti la sfida di quello che papa Francesco definisce non un tempo di cambiament­o, bensì piuttosto un cambiament­o di tempo.

«Questa è una domanda molto profonda, la ringrazio. Per me ci sono tre posizioni possibili: 1) Credere in Dio. 2) Non credere in Dio. 3) Lasciare la questione dell’esistenza di Dio come secondaria e iniziare a praticare. Per praticare intendo coltivare lo spirito. Con questo intendo dire che la fede non deve essere un punto di partenza, ma un punto di arrivo. Il punto di partenza è il desiderio di qualcosa di più, la ricerca spirituale, non l’adesione dottrinale. Questa è la situazione opposta a quella che si è creata negli ultimi decenni. In passato, c’erano molti che si dichiarava­no credenti, ma non praticanti. Prevedo che in futuro (sta già accadendo) ci saranno molti che si definirann­o non credenti praticanti. Il percorso dottrinale e morale è quello esplorato dalla catechesi. La mistagogia, invece, che appartiene anch’essa alla Tradizione, esplora la via simbolica e rituale, che è, ovviamente, quella che io stesso propongo».

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