Corriere della Sera - La Lettura
Le famiglie sono strane ciascuna a suo modo
Nel romanzo di Kawakami Hiromi una sorella e un fratello, raggiunta la mezza età, tornano a vivere insieme. Il loro è un legame atipico, come anticonvenzionale era quello tra i genitori. Sullo sfondo, i traumi della guerra e della violenza
Le famiglie normali si somigliano tutte, forse. Le famiglie strane lo sono ognuna a suo modo. E quella di Miyako e Ryo non è strana, ma stranissima. Talmente strana che a un certo punto la protagonista de La voce dell’acqua se lo chiede con brutale candore: «Siamo veramente una famiglia?». Perché la questione sta proprio qui: la vicenda che riempie il romanzo di Kawakami Hiromi è insieme storia di famiglia e storia di una non-famiglia, dove i passaggi si incastrano l’uno nell’altro in modo un po’ sghembo.
Apparso nel 2014, La voce dell’acqua è coerente con il percorso di un’autrice ambiziosa che — lo dimostrano altri suoi titoli, in ultimo i racconti di Dolcemente soffocante — sembra combinare la tradizione modernista giapponese con la frequentazione di certi intimismi postmoderni. Stavolta la prosa di Kawakami si dedica alla sorte di Miyako, che, superata la cinquantina, si è arresa al declinare della propria parabola esistenziale, e del fratello Ryo: anche lui è una pallida comparsa sulla scena del mondo e porta addosso le vaghe stimmate di essere stato un tipico ragazzo della generazione sanmushugi (i «tre senza»), priva di energia, di interessi e di responsabilità.
I due si ritrovano dopo la morte della madre, Mami, a decidere di tornare a vivere insieme. Ricordo dopo ricordo, colmano distanze di anni e spolpano quello che è rimasto dell’aria e dell’aura della famiglia. Si guardano indietro, dentro, intorno, pochissimo davanti. Perché davanti non c’è più molto: «La morte di Mami è diventata la pietra miliare della mia memoria», riconosce Miyako; e Ryo: «Sapevo che un giorno avrei dovuto morire, ma non sopportavo l’idea di vivere solo fino a quel giorno». L’ipoteca emotiva di Mami si fa sentire. Scopriamo che era figura eccentrica, di fascino: la sua personalità forte inorgogliva «papà» e incuriosiva gli amici maschi. In una società conformista e patriarcale, dai ruoli codificati, Mami a proposito del crescere i figli confidava di non aver mai preso il «compito troppo sul serio». Non a caso Ryo ha con Mami parecchi conti in sospeso e vorrebbe «andare in un paradiso diverso, non quello dove si trova lei».
famiglia «a parte», quindi, cova incrinature, sfasamenti. Nei paraggi orbita l’amico di famiglia Takeji, ed è lui a spiegare a Miyako e Ryo, senza violenza, quasi si trattasse di un’inevitabile ovvietà, che «papà non è vostro padre» e che «vostro papà non è il marito di vostra mamma». È la prima di una serie di rivelazioni che non si ferma con la scoperta che è lo stesso Takeji il padre biologico dei due fratelli, ma procede oltre.
Il nido che Miyako e Ryo allestiscono nella casa dei genitori è dunque un fortino nel quale si asserragliano, senza cedere a nevrosi né tagliandosi davvero fuori dal mondo, ma girando intorno a sé stessi. «Però è un po’ strano che dormiamo insieme, no? Siamo fratelli, noi due», e addirittura: «Com’è successo che i nostri corpi si siano avvicinati?». Kawakami non lo chiama incesto, La voce dell’acqua lo modella come un legame che sfugge alle forme date. Un accadimento ineluttabile — neanche una scelta — che non merita giudizi morali. Pare piuttosto un esorcismo nei confronti della morte, quasi una coinquilina di Miyako e Ryo.
Viene da lontano, la morte. L’autrice disegna una faglia profonda che non solo attraversa la famiglia ma mostra in una prospettiva ampia il male di vivere di tutta una nazione. Risaliamo così al Giappone del dopoguerra, dove nessun boom e nessun oblio avevano potuto sanare traumi radicali. Le bombe al fosforo americane durante il conflitto non avevano cancellato completamente le fortune dei nonni di Miyako e Ryo — una cassaforte aveva protetto il denaro accumulato in anni di lavoro matto e disperatissimo — eppure «le macerie che coprivano Tokyo durante la guerra avevano riempito» i corpi dei genitori, leggiamo, «al punto da non lasciare più il minimo spazio». La violenza bellica, lo sradicamento dell’ordine che fu, soprattutto la pervasività della morte e della distruzione, sembrano generare e nutrire il baco che ha reso la famiglia di Mami, di papà, di Miyako e Ryo un organismo atipico, bozzolo eterodosso di affetti. La tara passa di generaLa zione in generazione e perpetua, nei figli, la formula fuori canone di famiglia.
Kawakami non si limita a evocare la violenza bellica: pur con pochi accenni, la conficca nel corpo della narrazione. E non è la sola morte che bracca Ryo e si riverbera su Miyako. Seguiranno, sempre per allusioni, prima il catastrofico terremoto di Kobe del gennaio 1995; poi, il 30 marzo dello stesso anno, l’attentato della setta pseudoreligiosa che sparse nella metropolitana di Tokyo un gas nervino, il sarin, e provocò 14 morti e oltre un migliaio di feriti. Ryo scampa alla strage per puro caso: «Anche dell’attentato al sarin, del fatto che l’ha sfiorato, ha iniziato a parlarne poco per volta, dopo che è venuto ad abitare qui», considera l’io narrante Miyako, e traccia la linea tra i sommersi e il salvato, al quale inevitabilmente il massacro scava il cuore. Infatti lo stesso Ryo nota che, sì, «non c’è quasi differenza tra me e la gente che si trovava a chilometri di distanza e guardava le scene dell’attentato alla televisione».
L’«irregolarità» della famiglia di Mami, dove anche «papà» mostra insofferenza per i riti funebri canonici, è stata forse provocata e alimentata dal ricorrere di una morte che si manifesta sotto vari aspetti (il romanzo uscì tre anni dopo lo tsunami e il disastro nucleare di Fukushima del 2011). Per questo sembra compromessa la possibilità stessa di una famiglia come patria e consuetudini comandano.
Ma potrebbe anche darsi l’opposto. Cioè che proprio a fronte della spudorata bestialità dell’uomo — la guerra, il terrorismo — e della innocente ferocia della natura — il terremoto — l’unico rifugio sia abbandonarsi agli affetti anche quando provocano, a loro volta, sofferenza, incomprensioni, perché «conoscere troppo bene qualcuno è qualcosa che fa paura». Una specie di famiglia, una non-famiglia che surroga la famiglia, può comunque salvare.
Il simile con il simile, in fondo. Il legame di Mami e «papà» si riflette nel ménage che, giunti alla mezza età, Miyako e Ryo mettono su nella vetusta casa dell’infanzia, sopravvissuta fino ad allora alla speculazione, eppure condannata all’impermanenza (cioè alla demolizione), e la sorella a sua volta si specchia nel fratello (ha l’impressione «che lui fosse una replica di me stessa»). Arriva il momento di lasciare andare chi già se n’è andato. I fili si riallacciano e a quel punto neppure un’ultima separazione può fare davvero del male. Non tutte le felicità si somigliano: alcune sono felicità molto strane.