Corriere della Sera - La Lettura
Viaggio all’inizio della notte
È il 1992, da anni l’assassino è in giro a caccia di giovani vittime... La clamorosa vicenda criminale del «mostro di Bolzano» diventa una incandescente storia narrativa nelle mani di Luca D’Andrea
Dall’orlo d’uno spazio freddo e nero, la morte cola dentro al nostro mondo. Siamo a Bolzano nella notte tra il 5 e il 6 agosto 1992. È quasi l’una e al centralino della Croce Bianca arriva una chiamata: una donna, probabile vittima di un incidente stradale, è stata avvistata sul ciglio di una strada che porta fuori città. Quando i soccorsi giungono sul posto è troppo tardi. La donna era solo una ragazza di 18 anni ed è tragicamente chiaro che i segni che ha addosso non sono da investimento. Qualcuno ha visto una macchina allontanarsi di corsa.
Albeggia, e una pattuglia della Polizia ferma una Seat Ibiza rossa al posto di blocco sul rettilineo di via Volta, nella zona industriale di Bolzano. Il deflettore del finestrino dalla parte del passeggero è divelto, il parabrezza incrinato. A bordo c’è un uomo proprio grosso, con due baffi folti e scuri sulla faccia da bamboccione che se fossimo dall’altra parte dell’Atlantico lo scambierebbero con il gigante californiano di Mindhunter, Ed Kemper, il killer delle studentesse. Ma qui, nella splendida provincia altoatesina, la più settentrionale d’Italia, non villeggiano le mostruose star americane.
Nei primi anni Novanta, Bolzano è una città ricca e tranquilla, la gente in giro in bicicletta, l’organo del Duomo, il mercatino dell’Avvento e lo sfondo delle Dolomiti, un benessere diffuso, un paradiso in terra. Che di notte si torce e si rovescia in un sottosopra affogato d’eroina, prostituzione e coltellate. A guardare bene nell’italico stivale abbiamo poco da invidiare ai mirabolanti orrori d’oltreoceano, fieri d’un’antica tradizione di delitti che non c’è paese che non esibisca un monumento, un piatto tipico e un Uomo Nero, rigorosamente a chilometro zero. Il capoluogo dell’Alto Adige non è certo da meno, ed è già un po’ che la città s’addormenta in preda a incubi scarlatti. Sono anni che fra strade, vicoli e spiazzi bui aleggia la leggenda del fantasma col coltello. In un mondo non ancora mappato dai satelliti, carte di credito e videocamere, il «killer delle lucciole» fa paura.
Riavvolgiamo qualche giro di nastro.
Quattro mesi e mezzo prima, il 21 marzo 1992, Renate Troger, 18 anni, tanto piccola da sembrare una bambola — scarpe da tennis rosa, calzini di spugna bianchi, occhi neri come la strada — è stata trovata morta su uno slargo lungo la statale 12. Nessuna traccia di violenza sessuale. Ancora un passo indietro: il 7 gennaio 1992, nel piazzale di un benzinaio viene rinvenuto il corpo della ventiquattrenne Renate Rauch, tossicodipendente, martoriato da 24 coltellate. Sulla sua tomba, due settimane dopo, un biglietto: «Mi dispiace ma quello che ho fatto doveva essere fatto, e tu lo sapevi. Ciao Renate».
Siamo di nuovo alla mattina del 6 agosto e alla nostra Seat Ibiza. Il gigante con i baffi mostra i documenti agli agenti, esce dalla macchina e apre il portabagagli. Il graffio della varechina nell’aria, l’imbottitura strappata dal sedile, un jeans e una maglietta, tutto impregnato di rosso. Nel rivestimento interno del baule gli agenti scoprono un pezzo di nastro adesivo che nasconde la carta d’identità di Marika Zorzi, 24 anni, gli occhi grandi color di foglia e decine di coltellate in petto.
Il colosso si chiama Marco Bergamo, compie ventisei anni quel giorno e non batte nemmeno un ciglio. Li segue mansueto in questura. Nel frattempo altri poliziotti entrano nel suo appartamento in via Visitazione 72 dove vive con i genitori che sono in vacanza al mare. In casa trovano tre armadi. Chincaglieria nel primo. Una scatola di scarpe con un trenino giocattolo, un rotocalco di meccanica e un mucchio di riviste pornografiche nel secondo. Nel terzo, anzi sopra il terzo, c’è una grossa scatola di legno. Chiusa con un lucchetto. Dentro: una dozzina di coltelli da caccia, a scatto, a serramanico; e quelli da tavola spariti dal cassetto delle stoviglie in cucina. Ma soprattutto: un album fotografico pieno di ritagli di giornale su un vecchio caso insoluto, quello che se fossimo sempre in America chiameremmo cold case: «Quindicenne seviziata e uccisa in casa». Lei è Marcella Casagrande, alunna delle magistrali con la passione per la fotografia. Il 3 gennaio 1985, sette anni prima, ha aperto la porta alla persona sbagliata che l’ha colpita alle spalle con una lama prima di perdere il lume della ragione.
Se ci fosse qualche dubbio, gli investigatori in casa Bergamo trovano una mappa di Bolzano su cui è evidenziato il percorso della ragazza da scuola a casa. Stesso modus operandi, stessa vittimologia, piena corrispondenza della sua calligrafia con quella del biglietto sulla tomba di Renate Rauch. Così Marco Bergamo viene accusato anche dell’omicidio di Annamaria Cipolletti, insegnante quarantunenne, uccisa con dodici coltellate nell’appartamento dove riceveva i clienti, il 26 giugno 1985. Obeso, introverso, senza amici né relazioni senti
mentali, con gli occhi vuoti, distanti, il killer di fronte ai giudici si abbandona a una confessione fiume: «Fuori dall’ambito familiare senza coltello mi sentivo smarrito». La perizia psichiatrica conferma un’impotenza psicogena. Mente fortemente disturbata e una solitudine patologica che alimenta una rabbia furibonda: «È come se avessi avuto dentro un classico Dottor Jekyll e Mister Hyde».
Il processo si conclude proprio l’8 marzo 1994 con la sentenza di colpevolezza per tutti e cinque gli omicidi: quattro ergastoli e trent’anni di reclusione. Fine della storia. Con una coda tragica: il giorno in cui RaiTre manderà in onda Un giorno in pretura Renato Bergamo, padre dell’omicida, sale in soffitta dove appesa alla trave lo aspetta la sua corda.
Ma la storia del mostro di Bolzano in effetti non finisce davvero qui perché continua nelle farneticazioni che Bergamo scriverà dal carcere: «Io sottoscritto Marco Bergamo ho commesso solo tre omicidi e li ho confessati. Gli omicidi Troger e Cipolletti li ha commessi una seconda persona potenzialmente più pericolosa di me». È possibile che un assassino seriale reo confesso sia, contemporaneamente, anche innocente? La ricerca della verità e della giustizia può rovesciarsi per prendere la forma di un’ossessione?
È qui che s’insinua il dubbio, il bisogno di verità di Luca D’Andrea. Attorno ai singoli eventi delittuosi e al processo oscillano presenze umane, e disumane, disperse tra fiumi di eroina sversati nel mare della prostituzione e giù nell’oceano d’indagini di fazioni di sbirri violenti, disfide, depistaggi e abusi di potere. La magia de Il girotondo delle iene è allora un lungo giro di giostra nella memoria singolare e collettiva tanto veloce da trasformarsi in un enorme frullatore che ibrida la realtà degli eventi, quelli noti, strillati, sussurrati, acclarati, con la fiction. Quando la giostra-frullatore si ferma ecco la nostra storia: la realtà allo specchio per un romanzo in cui i nomi dei protagonisti sono frutto d’invenzione — a indagare sono il giovane commissario Krupp e Alex Milla reporter de «La Voce delle Alpi» — ma i fatti, e molto di quanto vi ruota attorno, no. Se la narrativa crime si rivolge sempre più alla cronaca nera per rievocare mostri, è perché nonostante tutto la finzione è più potente, più ambigua, di qualunque realtà. E qualche volta persino la realtà nasconde un finale a sorpresa perché «la verità dei fatti è come la luce della luna: un riflesso».
Luca D’Andrea torna nella sua terra per raccontare la storia del mostro di Bolzano ma prima ancora per dare corpo alle voci afasiche delle sue vittime scavando nelle sentenze, nelle carte, nelle perizie, nelle testimonianze del tempo e in quelle dei giorni nostri. Torna con un romanzo che fa del ritmo un’arma potente e dolorosa, le pagine pareti di dettagli, mattoncini che smonta e rimonta rifacendo il grezzo sentore della realtà. Un realismo psichedelico zeppo di carrellate di oggetti, dialoghi feroci, pensieri presi a morsi, assurde baraccopoli di tossici, destini di donne vilipese e stanze segrete della questura di Bolzano. Il paradiso in terra.
Sulla scena del crimine il commissario Krupp analizza prima i corpi poi le facce perché «i corpi parlano dell’assassino, le facce delle vittime». Ed è vero, in fondo sono le vittime a raccontare l’umano che siamo, ma l’ultima parola della storia, purtroppo, non è la loro. Perché la penna la tiene sempre in mano il mostro. E la mostruosità, si sa, è un genere plurale.