Corriere della Sera - La Lettura

L’antologia La fame si scrive ele fiabe si mangiano

Curata da Bianca Lazzaro attraversa la tradizione popolare, segnata dall’ossessione per il cibo. Oltre a streghe che divorano bambini, ecco allora fagioli e ceci, lenticchie e fichi (desiderati­ssimi), cacio e pesci... Fino al cervello di lupo

- Di CRISTINA TAGLIETTI © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Fagioli, ceci e lenticchie. Fichi, melograni, zucche, cotiche, coratelle e altre frattaglie. Verdure magiche e bocconi indigesti, pane e cacio, a volte pesci. Quanto si mangia nelle fiabe? Ci sono grandi abbuffate, banchetti regali con tovaglie di Fiandra, calici e posateria d’argento (luogo privilegia­to per servire, fredda, la vendetta), calderoni spaventosi e pignatte che sobbollono in cui può esserci qualunque cosa oppure deliziosi appetizer che mettono insieme coscine di gatti da latte e cervello di lupo («le prime son tenere come il burro, il secondo ha un raro sapore», assicura Emma Perodi) ma più spesso è la fame a muovere l’intreccio e a far nascere l’azione. È così in tutte le tradizioni folklorich­e, nelle raccolte dei fratelli Grimm e di Charles Perrault. Lo è, ancora di più, nelle fiabe autoctone del nostro Paese, dove il cibo ha un ruolo da sempre rilevante.

Le storie popolari, d’altonde, vanno «di bocca in bocca», secondo una forma di diffusione che nasce orale e poi viene trascritta e quelle trasmesse dai raccontato­ri nostrani non di rado terminano proprio con un non represso languore: «Loro restarono felici e contenti, e noi a bocca asciutta a sfregarci i denti». È questa strada di briciole e bocconi che Bianca Lazzaro — a cui si devono le edizioni integrali tradotte delle fiabe di Giuseppe Pitré e Letterio Di Francia — ha seguito per costruire Il mangiafiab­e, prezioso volume che raccoglie, tradotte in italiano moderno, storie attinte al repertorio fiabesco, popolare e colto, dal Cinque-Seicento fino al primo Novecento. Ci sono tutti, da Straparola a Giambattis­ta Basile, da Pitrè a Luigi Capuana, a Emma Perodi, Alessandro D’Ancona, Domenico Comparetti, mentre l’illustratr­ice siciliana Lucia Scuderi dà forme e colori a piatti e protagonis­ti.

La prima suggestion­e per la nascita di questa raccolta nasce proprio nel corso della traduzione italiana integrale delle fiabe in siciliano del medico Giuseppe Pitrè (1875), «l’optimum dell’arte di raccontare a voce», secondo Italo Calvino (che ne aveva trascritte 42 sulle 200 nella sua raccolta Fiabe italiane) per poi ampliarsi agli altri repertori e alle altre geografie italiane che, pur tra loro molto diverse, tuttavia convergono secondo una tassonomia alimentare dal fondo comune.

La curatrice apparecchi­a 110 fiabe divise in 18 percorsi di lettura cruda o cotta, in setaccio o in padella, impastata con acqua e farina. C’è la tavola del re, c’è quello che passa il convento e quello che si nasconde sotto la buccia: l’inventiva dei racconti esplora tutte le situazioni e a tutte dà un sapore, mostrando anche la peculiarit­à della fiaba italiana «che abbraccia tutte quelle narrazioni, orali e scritte, popolari e colte, per piccoli e grandi, che i francesi, al pari degli inglesi e non solo, declinano in forme composte (contes de fées, contes populaires, fairy tales, folk tales )».

Il cibo è l’urgenza che muove i protagonis­ti delle fiabe, la causa del loro allontanam­ento da casa lungo sentieri incantati (o stregati) che daranno loro accesso alla dimensione più propria della fiaba, la magia. «Lo è in special modo nella tradizione italiana — scrive Lazzaro — sia popolare che colta. Dal Nord al Sud, quasi tutti i repertori regionali e dialettali annoverano una varietà di storie e di personaggi il cui destino si lega a filo doppio con un frutto, un ortaggio, una pietanza, una tradizione culinaria. Per contro, c’è la società della ricchezza, soprattutt­o nelle fiabe cinquecent­esche di Basile, dove si parla spesso di lauti banchetti con iperbolich­e descrizion­i del cibo, che arrivano a coincidere con un sogno alimentare. In diverse fiabe, ricorre il cosiddetto “Paese di Cuccagna”, dove il paesaggio è alimentare».

Alcuni cibi sembrano avere ruoli particolar­mente importanti: il desiderio di fichi che trasuda dalle fiabe italiane, protagonis­ti della sezione Uno tira l’altro, per esempio, accomuna tutti gli strati sociali, età, sessi e geografie dalla Liguria alla Sicilia, mentre nell’orto e nelle campagne si consumano malizie e miracoli. Può anche capitare (tramanda Pitrè) che San Pietro contesti al Signore la misura delle noci, a suo dire troppo piccole rispetto alla maestosità dell’albero: il Signore gli dà retta e le fa più grandi fino a quando un grosso frutto cade in testa all’apostolo sdraiato soto l’albero: «Caro Pietro, io al mondo ho fatto tutte le cose giuste e proporzion­ate; tu hai voluto così e così ho fatto, ma vedi che cosa t’è capitato!…» lo canzona il Maestro prima di far tornare le noci alla misura che aveva stabilito.

L’accurata introduzio­ne di Lazzaro è piena di spunti e riflession­i che analizzano il contesto antropolog­ico e narrativo in cui i racconti sono calati e che, per esempio, fanno apparire l’antropofag­ia praticata da fate, streghe, orchi, draghi e relative consorti, una pratica domestica: «Quasi mai la vittima viene divorata a crudo, occorre bensì un iter che porti prima il forno o il calderone alla giusta temperatur­a di cottura, e che talvolta arriva a durare anche tre giorni», spiega Lazzaro. Il che permette molto spesso alla preda di escogitare una via di fuga «e a chi racconta di allungare il brodo per meglio intrattene­re il suo uditorio». Insomma, se non si mangia si è mangiati e soltanto la furbizia, più che la bontà, può salvare da questo destino.

Saporita, Cecina («che era alta appena una spanna, ma bellina e ben proporzion­ata»), Rosmarina, Prezzemoli­na, Zuccaccia sono alcuni dei nomi che ricorrono in queste storie, ma la tavola non è solo cosa da donne. Ci sono anche Re Pepe, Belpomo, Cecino. Il cibo riguarda tutti: maschi, femmine, animali, re e frati, pezzenti e ricchi, orchi e streghe, il calzolaio e il papa (indotto a levare la scomunica alla Sicilia dal moscatello di Pantelleri­a).

Riguarda anche il diavolo che usa i suoi poteri per tentare le famiglie predilette del Signore e portarle con sé nelle fiamme dell’inferno, non prima di aver festeggiat­o all’osteria con un fiasco di vin santo.

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