Corriere della Sera - La Lettura
Sigmund Freud, romanziere
Non era mai stato tradotto in italiano «L’uomo Mosé», il testo narrativo del 1934 che precede il saggio sul monoteismo ebraico. Un viaggio nell’antico Egitto nel segno, ovvio, della psicoanalisi
Scriveva Sigmund Freud nel 1925, in una lettera al direttore del giornale «Jüdische Pressezentrale Zürich»: «Posso dire di sentirmi lontano dalla religione ebraica come da tutte le altre religioni, nel senso che non mi coinvolgono emotivamente, anche se nutro per esse un grandissimo interesse scientifico. Per contro, ho sempre avuto molto forte il senso di appartenenza al mio popolo, che ho cercato di coltivare anche nei miei figli. Abbiamo tutti conservato la denominazione ebraica». Questo senso di appartenenza, ancorché svincolato dalla fede, e questo «grandissimo interesse scientifico», si coaguleranno nel 1934 in L’uomo Mosè. Un romanzo storico, testo che vede la luce per la prima volta in Italia grazie a Castelvecchi, che riprende l’edizione francese, uscita presso le Éditions Imago nel 2021 con traduzione di Johanna Vennemann e commento di Thomas Gindele, riportandola in italiano tradotta da Chiara Calcagno e aggiungendo una prefazione di Giovanni Filoramo.
Chi ha una qualche confidenza con l’opera freudiana, non si sorprenderà di questo interesse del padre della psicanalisi per la figura di Mosè: il suo saggio del 1939, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, è ben noto ai suoi lettori e studiosi, e già nel 1913 (in parallelo alla stesura di Totem e tabù, dove si ipotizzava proprio l’uso della psicoanalisi nella storiografia), aveva scritto, per pubblicarlo poi anonimamente nel 1914, sulla rivista «Imago» da lui diretta, il saggio Il Mosè di Michelangelo in cui, a partire dall’ecfrasi della celebre scultura custodita a Roma in San Pietro in Vincoli, per la prima volta metteva a confronto il personaggio mitologico e il (possibile) personaggio storico del patriarca dell’Esodo.
Questo testo inedito non mancherà tuttavia di stupire per il suo sottotitolo: Un romanzo storico. La figura di un novello Sigmund Freud romanziere farà senz’altro alzare le sopracciglia a molti, e risulta dunque opportuno sottolineare come questo L’uomo Mosè. Un romanzo storico sia senz’altro un prodromo e un avvicinamento all’Uomo Mosè e la religione monoteistica, ma allo stesso tempo non sia derubricabile a mera bozza o scartafaccio. Com’è noto, Freud distruggeva puntigliosamente i propri manoscritti e i propri appunti una volta che le opere erano pubblicate, volendo lasciare ai posteri soltanto i testi compiuti, rivisti e definitivi. Non è accaduto nel caso dell’Uomo Mosè. Un romanzo storico, segno che il padre della psicoanalisi lo riteneva opera distinta rispetto al successivo L’uomo Mosè e la religione monoteistica. Freud dice espressamente che il libro «è stato scritto due volte», e in una lettera alla discepola e collega Lou Salomè spiega che la questione mosaica «lo ha ossessionato per tutta la vita».
Il motivo per cui l’opera del 1934, oggi proposta da Castelvecchi, era rimasta inedita, si può ritrovare in un’altra lettera, al collega Max Eitingon, in cui spiega che «una parte del testo infligge gravi offese al sentimento ebraico, un’altra al sentimento cristiano: due cose che è meglio evitare nell’epoca in cui viviamo». Il fatto che Freud considerasse l’opera un romanzo non bastò dunque a evitarle di essere riposta in uno scatolone (finito poi nella Biblioteca del Congresso di Washington) ma le risparmiò la distruzione. «Romanzo», perché, come spiega lo stesso autore, le fonti di partenza erano poche e per lo più mitiche, e dunque per arrivare alla verità si dovevano opporre loro, a completamento, ipotesi romanzesche, il più possibile convincenti, motivate e verosimili, ma in ultimo indeterminabili.
Come sarebbe emerso in seguito, il Freud «romanziere storico» aveva preso diversi abbagli, anche a causa della sopravvalutazione — non solo da parte sua — di alcune scoperte archeologiche, all’epoca recentissime. L’ipotesi freudiana è che Mosè non fosse un ebreo cresciuto alla corte egizia, bensì un nobile egizio a ogni effetto, senza legami diretti col popolo esiliato: un seguace della svolta monoteista di Akhenaton, altrimenti nota come «eresia di Amarna», che impose l’abbandono del tradizionale politeismo in favore di un netto monoteismo, con l’unico dio solare Aton. Una figura solo parzialmente assimilabile al precedente dio solare Ra, sia per il suo essere unico e non soltanto sovrastante al resto del pantheon, sia per il suo essere una figura fondamentalmente assoluta, onnicomprensiva e per questo astratta (nei bassorilievi della breve epoca monoteista,
che durò solo fino alla morte di Akhenaton, quando il suo successore Tutankhamon ripristinò i culti precedenti, è raffigurato come un disco da cui si dipartono raggi dotati di piccole mani). Un «solo dio», quindi, non privo di similitudini con quello degli ebrei, o almeno più vicino a Yahweh di quanto non lo fossero le divinità zoocefale, assegnate a precisi ambiti della vita e del mondo, del pantheon egizio classico.
Freud si spinge allora a ipotizzare che questo nobile o sacerdote egiziano, deluso dalla restaurazione degli antichi dèi, si sia fatto carico delle tribù ebraiche in esilio, sovrapponendo il «suo» dio unico al loro, e conducendole poi verso la salvezza. Successivamente questo «Mosè egizio» sarebbe stato ucciso, e dalla rimozione del delitto, dal senso di colpa introiettato e dalla susseguente formazione reattiva (secondo Freud, il processo tramite cui alla rimozione seguono atteggiamenti coscienti orientati in direzione opposta), sarebbero emerse caratteristiche salienti del popolo ebraico a venire.
La convinzione di Freud era che la psicoanalisi potesse permettere l’avanzamento di ipotesi storiografiche sì «romanzesche» ma plausibili; tuttavia, quando le sue teorie su Mosè videro la luce, ancorché nella meno radicale e più saggistica versione successiva, le critiche e le voci di condanna furono unanimi. Per l’archeologo e biblista William Foxwell Albright, il libro di Freud era «totalmente privo di qualsivoglia metodo storico e trattava i dati storici con superficialità»; per l’archeologo Aren Maier, si trattava di un’analisi «semplicistica e in larga parte sbagliata»; ancora più netto l’egittologo Brian Fagan, che definì l’approccio freudiano «privo di qualsivoglia base storica», o ancora il teologo Rowan Williams che parlò di «impianti immaginari dolorosamente assurdi».
In effetti, Freud aveva sopravvalutato di molto le scoperte archeologiche di Amarna, avvenute con grande scalpore nel 1887, che avevano fatto pensare ad Akhenaton come una sorta di grande profeta dell’unico dio, e quindi un possibile anticipatore delle grandi religioni monoteistiche, nonché plausibile mentore di un ipotetico Mosè egizio. Tutte ipotesi smentite dalla storia, che ha dimostrato come l’eresia di Amarna sia stata di breve durata e scarsa influenza, e come il monoteismo d’impronta ebraica abbia tutt’altre, e successive origini.
Che ce ne facciamo, allora del «romanzo storico» L’uomo Mosè? Non poco, in realtà. Al di là del suo essere ovviamente indispensabile ai «completisti» freudiani, l’opera, specie se comparata con quella del ’39, ci presenta uno squarcio di estremo interesse sui processi creativi di Freud, e ci dice anche qualcosa in più su Sigmund Freud medesimo, che già vent’anni prima, col Mosè di Michelangelo, mostrava una certa tendenza a sovrapporsi con la figura mosaica (laddove ovviamente al posto della religione ebraica ci sarebbe la psicanalisi), in quanto uomo che deve avere autocontrollo perché ha una missione da compiere «nonostante tutto». Un discorso che continua in questi due decenni di rovelli interiori, e che, nel «romanzo storico» L’uomo Mosè, arriva a raccontare, per chi legge tra le righe, l’ambivalenza di Freud rispetto alla propria origine ebraica. Né il “romanzo di Mosè” dona solo questo al lettore: Freud nota come il mito mosaico condivida con altri miti, sempre legati a padri fondatori di qualche tipo, da Romolo a Sargon a Ciro, il «destino dell’infanzia minacciata dalla nascita», la salvezza miracolosa salvezza, l’annuncio della nascita tramite sogni od oracoli che ne minacciano il padre e altri tratti comuni, da «macromito», anticipando così gli studi narratologici dell’Eroe dai mille volti di Joseph Campbell, il saggio che tanto avrebbe influenzato i miti e i romanzieri moderni — e certo Campbell non poteva sapere che tra i suoi mille volti c’era quello barbuto e ponderoso dello stesso Freud.