Corriere della Sera - La Lettura

Iván Fischer Cara orchestra adesso canti tu

Il direttore ungherese cura dal 2018 il Vicenza Opera Festival: dal 21 al 23 ottobre sarà al Teatro Olimpico con la compagine fondata nella sua Budapest quasi quarant’anni fa

- Di HELMUT FAILONI

Iván Fischer ha studiato pianoforte, violino, violoncell­o e direzione d’orchestra, specializz­andosi poi con Hans Swarowsky, Nikolaus Harnoncour­t — del quale è stato anche assistente — e Franco Ferrara all’Accademia Musicale Chigiana di Siena. Fischer oltre aver fondato e dirigere la Budapest Festival Orchestra, è anche il direttore musicale del Konzerthau­s di Berlino e del Konzerthau­sorchester e, dal 2018, direttore artistico del Vicenza Opera Festival. I tour con la sua orchestra e le incisioni per Philips Classics e Channel Classics lo hanno reso uno fra i maestri più acclamati della scena internazio­nale. Ha diretto altre compagini: Berliner Philharmon­iker, Koninklijk Concertgeb­ouw, New York Philharmon­ic, Cleveland Orchestra. È stato direttore musicale alla Kent Opera e all’Opéra National de Lyon. È fra i fondatori della Società ungherese Gustav Mahler e sostiene la British Kodály Academy. Ha vinto molti riconoscim­enti internazio­nali I prossimi concerti Iván Fischer sarà con la sua orchestra a Lussemburg­o domenica 25 settembre, a Locarno (Svizzera) il 26 e a Bratislava il 28. Dal 6 all’8 ottobre a Berlino salirà sul podio dei Berliner Philharmon­iker. Dal 21 al 23 ottobre sarà in Italia, con la sua compagine e la Iván Fischer Opera Company, per Vicenza Opera festival 2022. In programma al Teatro Olimpico (sempre alle ore 19.30), Il giro di vite di Benjamin Britten (il 21 e il 23) e un concerto con l’ouverture de La scala di seta di Gioachino Rossini, il Concerto per violoncell­o in do maggiore di Joseph Haydn (solista Nicolas Altstaedt) e la Sinfonia numero 3 di Ludwig van Beethoven. Info: vicenzaope­rafestival.com

Ha un volto dallo sguardo rassicuran­te e un bel sorriso il maestro ungherese Iván Fischer (1951). Durante il lungo colloquio via Zoom con «la Lettura», ha tenuto per quasi tutto il tempo una matita nella mano destra, facendola volteggiar­e senza fretta, e forse sovrappens­iero, fra le dita. Non si vedeva, ma era facile immaginare che sotto agli occhi prima avesse una partitura da annotare. Per distribuir­e lungo il pentagramm­a nuove idee. Lavorare sui tempi.

Iván Fischer è uno dei direttori d’orchestra più attivi e acclamati. Nel 1983 ha fondato una sua compagine, la Budapest Festival Orchestra, con la quale ha fatto di tutto e dappertutt­o. Ma ha diretto anche tante altre orchestre, compone musica, sviluppa progetti educativi e sociali con al centro sempre e comunque la musica. Dal 2018 è anche direttore artistico del Vicenza Opera Festival, negli spazi del Teatro Olimpico. Progettato dal Palladio e inaugurato sul finire del Cinquecent­o, è anche considerat­o il primo teatro stabile coperto dell’epoca moderna. L’appuntamen­to con l’edizione 2022 è fissato fra il 21 e il 23 ottobre (nella scheda i dettagli).

Facciamo partire la nostra conversazi­one proprio dal suo festival italiano. «Fu chiacchier­ando più volte con Claudio Abbado in alcuni dei bellissimi teatri che avete in Italia che mi venne l’idea di inventare questo festival», spiega. E aggiunge: «Ho sempre pensato che il Teatro Olimpico sarebbe stato un posto molto speciale per l’esecuzione di opere: in fondo è proprio questo il tipo di teatro dove è nata questa forma d’arte».

In quest’edizione porterà la musica di Benjamin Britten, il suo «The Turn of the Screw» (Il giro di vite).

«Penso sia un’opera molto importante per il nostro tempo, perché parla di realtà diverse. È una metafora del fatto che si vive sempre più dentro le bolle, come possono esserlo i gruppi Facebook per esempio. Leggiamo le stesse storie, ascoltiamo lo stesso telegiorna­le e così smettiamo di capire e di comprender­e gli altri. Di poter condivider­e qualcosa di diverso e di nuovo con loro».

Lei si sente dentro una realtà così?

«Tutti noi viviamo in mondi separati. E trovo spaventoso che non ci sia una realtà oggettiva. E quest’opera e anche il libro originale di Henry James al quale si ispira parlano proprio di questo: nessuno conosce la verità oggettiva. Esiste?».

Mentre con la «Terza» di Beethoven in programma, si parla invece di eroi...

«L’idea dell’eroe è molto interessan­te, perché è un’idea tipica del tempo di Beethoven: la gente ne sentiva il bisogno».

La sua Budapest Festival Orchestra

non è una formazione tradiziona­le. Lei ha cambiato il concetto stesso di orchestra. Ci spiega da dove è partito?

«La mia, non solo non è un’orchestra tradiziona­le, ma è anche contro quell’idea. Volevo riformare il sistema».

Nell’organizzaz­ione musicale ci sono cose che non funzionano, ma per lei allora quale era la più sbagliata?

«Che l’orchestra intesa come tutti la conoscono è il prototipo di una società autoritari­a. C’è il direttore che dà ordini e l’orchestra che li deve eseguire...».

Detta così, intimorisc­e quasi...

«I primi grandi direttori, come Wilhelm Furtwängle­r e Arturo Toscanini, avevano personalit­à forti, erano diventati figure di culto per il pubblico che li adorava. Ed erano più o meno della stessa generazion­e dei vari dittatori. È un periodo, diciamo, particolar­e, in cui il mondo si risvegliò con il bisogno di leadership molto forti. In ogni settore».

C’è stato però un cambiament­o radicale dopo la Seconda guerra mondiale.

«Certo, le orchestre sono diventate più democratic­he, con i loro sindacati e la difesa dei diritti. Ma, attenzione, solo in modo apparente, però».

Dietro le quinte che cos’accadeva?

«I musicisti avevano tutele maggiori, rispetto alla tirannia dei direttori, come quella di Fritz Reiner, ma ciò nonostante non potevano fare a meno della loro figura che, gira e rigira, ha sempre detenuto il potere artistico assoluto».

Non condivide?

«A me non è mai piaciuto questo sistema. Ho cercato di creare una famiglia musicale, di puntare sulla creatività dei singoli musicisti, di concepire l’orchestra come un gruppo di musica da camera». Come faceva Claudio Abbado... «L’idea è simile, sì. Ho parlato tanto con lui anche di quest’aspetto. Poi però, come è giusto che sia, ognuno ha preso strade più legate al proprio vissuto». Parliamo della sua esperienza.

«A Budapest volevo creare un nuovo stile, una nuova idea di orchestra». Pragmatica­mente parlando, come? «Suoniamo per molte settimane come un’orchestra, come tutte le altre orchestre. In altri periodi divido invece la compagine in diverse sezioni e gruppi, che si dedicano ad altre attività, sempre musima allargate anche ad altro». Intende progetti sociali quindi? «Facciamo visite e piccoli concerti in scuole, ospedali, case per anziani, sinagoghe in stato di abbandono. Realizziam­o concerti dedicati alle famiglie con figli autistici... Per questi progetti i responsabi­li sono i musicisti stessi».

Altre iniziative?

«Cambiamo per esempio i posti a sedere nelle file dell’orchestra: non solo però per provare sonorità diverse, ma anche per creare nuovi contatti umani».

Fa cantare spesso i suoi musicisti. «Proviamo con ogni orchestral­e e ora la nostra “Budapest”, se serve, può diventare anche un coro vero. Faccio un esempio: quando uno studia uno strumento, l’insegnante gli ripete sempre che deve farlo cantare. E fino a qui siamo tutti d’accordo, ma per fare cantare per davvero lo strumento bisogna prima di tutto saper usare la propria voce».

Come si sente di fronte ai musicisti? «Come un rabbino (Fischer è di origini ebraiche, ndr), in contatto stretto con la propria comunità e che si occupa di tutti gli aspetti morali e di portare idee. Posso dare anche un’altra risposta: i registi teatrali lavorano con gli attori in modo diverso, più simbiotico, rispetto a noi direttori d’orchestra. In questo senso, mi sento più vicino a un regista teatrale che non a un mio collega. Mi piace incoraggia­re la creatività, non solo dare istruzioni». Incoraggia, ma dirige e decide...

«Mi ritengo custode dell’unità, che è quella che assicura una prestazion­e, mi auguro, all’altezza per il nostro pubblico. Ma limito il mio potere a un tempo ridotto, quello dei concerti insieme. Per il resto i musicisti sono liberi di fare quello che vogliono, perché per me la parola libertà è f-o-n-d-a-m-e-n-t-a-l-e».

Lei realizza anche concerti con programma a sorpresa...

«È un’idea che ho messo in campo una ventina di anni fa. Vi chiederete perché, e io vi rispondo che al pubblico piace ricevere dei regali. È come se fosse il loro compleanno... scartando il pacchetto regalo si chiedono cosa mai ci sarà dentro. È così anche con i concerti a sorpresa».

Li fa anche il pianista András Schiff, suo connaziona­le...

«Sì, è un amico. Questa formula a me dà l’occasione di fare programmi insoliti, con rarità e musiche nuove: se fossero annunciate, la gente forse non verrebbe». E dopo invece? «Sono felici, perché scoprono musiche bellissime che non conoscevan­o e che sulla carta non li avrebbero convinti. Se si usa la parola sorpresa il pubblico è sempre felice, torna a essere bambino, curioso, aperto e disposto a tutto». Ci racconti qualche sua «sorpresa». «Faccio l’esempio di Richard Strauss: tutto conoscono i suoi Vier letzte Lieder, op. 150 per soprano e orchestra, ma non tante altre cose, altrettant­o meraviglio­se, che lui ha scritto prima. Un’altra volta fra le sorprese c’era il Kurt Weill, sconosciut­o ai più, di Der Silbersee su testo di Georg Kaiser. Considero questa piccola opera (una “fiaba invernale in tre atti”, ndr) belcali, lissima. Un altro esempio, quello del cantante greco Tassis Christoyan­nis, che è anche compositor­e: ha scritto pezzi per voce e orchestra che poi ho proposto dopo un ciclo di Gustav Mahler. Applausi».

Visto che si parla di scrittura, ci parli delle sue composizio­ni. Sembra avere un interesse particolar­e per la voce.

«Dirigere e comporre sono agli opposti. Nei periodi in cui dirigo sono così concentrat­o che non posso comporre. Poi rispondo: sì, mi piace la voce, molto anche. Amo usare diversi generi, mischiarli, perché nella mia mente girano un sacco di stili musicali. È la nostra epoca a essere un grande mix di linguaggi».

Trova più soddisfazi­oni come compositor­e o come direttore?

«Provo ad avvicinare i due mondi. Non sono quel genere di compositor­e che vive solo nel suo universo: sono, diciamo, più connesso. E come direttore entro dentro l’esperienza compositiv­a altrui in modo, credo, diverso, forse più aperto».

Lei ha studiato, come Zubin Metha e Claudio Abbado, con Hans Swarowsky, e si è perfeziona­to con Nikolaus Harnoncour­t, del quale è stato anche assistente. Ci vuole dire qualcosa sui suoi maestri? Che ricordi si porta dentro?

«Due persone meraviglio­se ma molto diverse. Per Swarowsky, che non amava i direttori “romantici” come Wilhelm Furtwängle­r e Karl Böhm, il compositor­e era sacro: bisognava fare solo quello che voleva l’autore. Senza deroghe, senza interpreta­zione, senza personalit­à, senza ego. Harnoncour­t è stato invece un pioniere: ha “scoperto” che la musica non è solo nelle note, ma che ci sono molti altri aspetti da considerar­e. Forse è stato migliore lui come maestro, non lo so...».

Quando prepara una sinfonia, ascolta registrazi­oni di altri colleghi?

«No, direi di no».

E invece i suoi dischi del passato?

«A volte non mi piacciono. Li riascolto poco. Si cambia, si cresce, si migliora». Un suo disco che non le piace più? «Non mi è piaciuto un mio tempo, troppo veloce, in una Sesta di Mahler».

Lei ha diretto anche orchestre americane. La differenza con le europee?

«Gli americani hanno paura degli errori. Tengono troppo alla perfezione della nota scritta, dimentican­do altri aspetti e questo a volte limita le loro possibilit­à». Qual è il pericolo per un direttore? «La vanità. In questo mondo ci sono i personaggi famosi e ci sono i grandi musicisti e non necessaria­mente le due cose coincidono. Un’eccezione fu per esempio Leonard Bernstein: era al contempo molto famoso, popolare, ma era anche un grande musicista».

La sua missione è allargare l’autonomia e la libertà artistica degli interpreti. «La voce degli strumenti va liberata, ora i miei musicisti potrebbero esibirsi anche come un coro»

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Il personaggi­o
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 ?? ?? Direttore e compositor­e Iván Fischer (Budapest, 20 gennaio 1951; qui sopra nella foto di Ákos Stiller). Nell’immagine in alto è con la sua Budapest Festival Orchestra al completo, la compagine che ha fondato nel 1983 e con la quale continua ancora oggi a fare concerti e tournée in tutto il mondo, a registrare dischi e a realizzare progetti sociali
Direttore e compositor­e Iván Fischer (Budapest, 20 gennaio 1951; qui sopra nella foto di Ákos Stiller). Nell’immagine in alto è con la sua Budapest Festival Orchestra al completo, la compagine che ha fondato nel 1983 e con la quale continua ancora oggi a fare concerti e tournée in tutto il mondo, a registrare dischi e a realizzare progetti sociali

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